giovedì 20 novembre 2014

"IL MATCH DEL SECOLO"


La boxe non è uno sport nato in America, ma - fatto tipico della immigration nation - è immigrato in America nell'epoca mitica della corsa all'oro nelle Terre Selvagge del Vecchio West, e da allora in poi è in America che si sono scritte quasi tutte le pagine più emozionanti della sua storia. Non è un caso. Ripercorrendo il succedersi si episodi e protagonisti della storia di quello che è si' un gioco brutale e primitivo ma una fonte di ispirazione inesauribile, quasi ossessiva, per il cinema, la letteratura, la musica, il grande giornalismo, ho provato a raccontare assieme ad Ernesto Kieffer anche qualcosa di quel Grande Paese, a Radio Popolare Verona nel terzo appuntamento mensile a "La Tertulia - Racconti dall'Oltresport". Il podcast è qui.

venerdì 14 novembre 2014

L'ELEFANTE NELLA STANZA


"The people have spoken, the bastards" – il popolo si è pronunciato, quel bastardo. Visto dalla Casa Bianca, l'esito di queste elezioni di mezzo termine si potrebbe riassumere con la celebre battuta di un candidato democratico trombato al Senato negli anni Sessanta. Le conseguenze son sin troppo evidenti: il Presidente "anatra zoppa", la necessità di compromessi, e così via. 
Meno scontate sono le conseguenze nel campo dei vincitori. Cosa accadrà ora – e cosa sta già accadendo in queste ore - nel Partito Repubblicano?

La tentazione di pensare che il voto della settimana scorsa faccia già assaporare al Grand Old Party una vittoria anche alle presidenziali del 2016 è forte, ma va repressa. Le midterm, per più di un motivo, spesso non preludono affatto ad un voto consonante nelle successive presidenziali. Del resto, anche nel 2010 Obama ricevette una gran mazzata; eppure eccolo ancora lì.

Semmai, ad alimentare le speranze dei repubblicani di riprendersi la presidenza nel 2016 è un altro fattore: negli USA dopo otto anni il pendolo dell'alternanza tende sempre ad oscillare. Mantenere lo stesso colore politico alla Casa Bianca per tre mandati consecutivi è un'impresa riuscita, dal secondo dopoguerra, solamente a Bush padre, che nel 1988 succedette ai due mandati di Reagan. Ma è l'eccezione che conferma la regola. Tutti gli altri che hanno tentato hanno fallito, anche se anche se a volte davvero di pochissimo In questo senso le prossime presidenziali per i Democratici saranno simili a ciò che quelle del 2008 furono per i Repubblicani; e simmetricamente, tra questi ultimi – contrariamente a quanto accadde due anni fa, quando le primarie per selezionare l'antagonista di Obama vennero popolate da una moltitudine di candidati scadenti quando non improbabili – stavolta il contesto incoraggia i "cavalli di razza" a scendere in campo.

L'esito delle elezioni di mezzo termine, però, un risultato concreto in questo senso lo ha già prodotto. I Repubblicani ora non sono più puramente e semplicemente "l'opposizione". 
Conquistato anche il Senato, per il Grand Old Party è suonata la campanella di fine ricreazione. Alla geniale copertina del New Yorker che mostra "l'elefante nella stanza" del Presidente (gioco di parole: in inglese elephant in the room è metafora proverbiale per indicare in problema troppo grosso per essere ignorato, ma l'elefante è anche il simbolo del Partito Repubblicano) si potrebbe attribuire anche un ulteriore doppio senso: i Repubblicani ora siedono nella "stanza dei bottoni". Adesso tocca anche a loro partecipare, in un certo senso, al governo del Paese. E ciò probabilmente finirà per imprimere una determinata curvatura al processo di "selezione naturale" del candidato alla Casa Bianca.
La nota spaccatura fra i repubblicani più moderati e di establishment, e l'ala più conservatrice e radicale vicina al movimentismo antistatalista dei Tea Party, non sarà l'unica chiave di lettura di quanto accadrà nei prossimi due anni nel centrodestra a stelle e strisce. Gli aspiranti al trono si vedranno chiamati innanzitutto a mostrare, con i fatti più che con discorsi ben infiocchettati, l'esperienza e competenza che al giovane senatore dell'Illinois, con il senno di poi, difettavano. 
 In questo senso, accanto alla consueta dicotomia tra l'ala moderata e quella più conservatrice, se ne profila una di tutt'altro genere: quella tra senatori e governatori. 
I senatori saranno protagonisti del rapporto con la Casa Bianca nei prossimi due anni: sui tagli alle tasse e alla spesa pubblica, sia sul mantenere o modificare la famigerata ObamaCare (la riforma del sistema sanitario voluta dal presidente) e sul riformare o meno la materia dell'immigrazione (eterna promessa mai mantenuta di Obama), sia su alcune nomine importanti (probabilmente quella di un nuovo giudice della Corte Suprema). Un po' giocheranno a braccio di ferro, e un po' dovranno costruire compromessi. Tutto ciò avrà dei protagonisti: nomi, cognomi, volti. In primis quello del senatore della Florida Marco Rubio, partito come uomo dei Tea Party ma ben presto ricollocatosi nell'establishment del partito, volto giovane e fresco nel quale, con Obama appena reinsediato, una copertina di TIME già precipitosamente leggeva quello del "salvatore" dei Repubblicani, suscitando l'ironia del diretto interessato:

Le origini cubane e la adesione ad una politica estera da "falco" sono il biglietto da visita non solo di Rubio ma anche del senatore del Texas Ted Cruz, un ultraconservatore che si propone come l'ultimo giapponese ancora pronto a battersi per l'integrale abrogazione di ObamaCare. A distinguersi per la proposta di un ritorno alla antica politica estera isolazionista (che caratterizzava i Repubblicani un secolo fa) è invece il senatore del Kentucky Rand Paul, figlio di quel Ron Paul vecchio senatore del Texas che a lungo ha tenuto alto il vessillo del movimento libertarian americano. Rand è un po' la versione "presentabile", edulcorata, di Ron: un veejay di MTV ha recentemente riassunto il tutto con una metafora musicale, stando alla quale il padre sta ai Nirvana come il figlio sta ai Pearl Jam

 I governatori, dal canto loro, potranno consolidare i rispettivi curriculum in quello che tradizionalmente è il tipico passaggio nel cursus honorum che culmina trasferendo la residenza al n.1600 di Pennsylvania Avenue. Non va infatti dimenticato che l'elezione alla Casa Bianca del senatore Barack Obama nel 2008 fu una anomalia (peraltro predeterminata dal fatto che anche il suo antagonista, il repubblicano John McCain, era un senatore, e come lui non aveva mai governato nulla). Prima di allora tutti i presidenti eletti democraticamente nell'ultimo mezzo secolo erano governatori, oppure ex vicepresidentiche in quanto tali si facevano forti di una (reale o presunta) partecipazione ad altra importante esperienza di governo: quello dell'intero Paese. Per trovare un'altra eccezione prima di Obama tocca risalire fino a John Kennedy; ma stavolta tutto induce a ritenere che gli americani abbiano voglia di tornare al sentiero battuto Ciò arride alle ambizioni di personaggi come Chris Christie, il governatore extralarge del New Jersey (Stato tradizionalmente "blu"), a lungo campione assoluto di popolarità, poi messo in crisi da un piccolo quanto fastidioso scandalo che, comunque, potrebbe non compromettere i suoi piani. Christie è considerato un centrista, anche se nel governare ha talvolta applicato ricette "reaganiane", ad esempio con i sindacati del pubblico impiego.

Su questo fronte, però, il vero campione è il "tatcheriano" Scott Walker, il governatore del Wisconsin (altro Stato tradizionalmente "blu"), nemico giurato dei sindacati dei dipendenti pubblici, sopravvissuto di slancio anni fa ad un tentativo di recall (destituzione tramite consultazione democratica, una sorta di voto popolare di sfiducia), ed ora trionfalmente rieletto.Secondo Nate Cohn del New Republic (non certo un suo simpatizzante), Walker, essendo al tempo stesso un "duro e puro" ma anche un uomo di governo ben rodato, non un movimentista ideologo, sarebbe il più capace di fare ciò che serve per vincere, ossia riunire le varie "anime" di un partito che, per sua natura, è al tempo stesso una coalizione. C'è poi sul tavolo il volto di un ex governatore, che prodigiosamente riesce ancora a mantenersi sulla breccia nonostante non ricopra alcuna carica da ben sette anni: Jeb Bush, governatore della Florida dal 1998 al 2007, figlio del 41esimo presidente e fratello del 43esimo, centrista ma gradito alla "destra religiosa", alfiere di una riforma dell'immigrazione che apra le porte alla regolarizzazione di molti dei latinoamericani che vivono e lavorano più o meno illegalmente negli USA. Su di lui grava però un dubbio: se davvero, come pare, i Democratici torneranno ad affidarsi ai Clinton, non sarà più efficace proporre un volto nuovo, anziché inscenare un revival del solito scontro fra le solite due vecchie dinastie? Non è un dubbio di poco conto.

Uscito su "Strade"

mercoledì 5 novembre 2014

PROFONDO ROSSO


 “Qui da noi non c’è stato un referendum su Obama”, annunciava concitatamente poche ore fa la senatrice Mary Landrieu della Louisiana, parlando ai suoi sostenitori. Come dire: se però ci fosse stato, sarei stata spazzata via anch’io. Non è ancora stata rieletta: andrà al ballottaggio a dicembre. Ma è pur sempre una dei pochi Democratici “sopravvissuti” a quello che l’Huffington Post non ha esitato a definire “disastro” e “bagno di sangue”, ed anche il britannico Economist definisce “carneficina”.
I termini apocalittici si sprecano, ma non gratuitamente. Il partito di Obama stanotte ha riportato una sconfitta di quelle che entrano nei libri di storia. Io stesso in occasione delle elezioni di mezzo termine di quattro anni fa parlai di“Tsunami repubblicano”, e stanotte guardando affastellarsi i dati dello spoglio mi chiedevo che termini avrei potuto usare per mantenere la proporzione. Ecatombe? Armageddon? Molti ricorrono al colore: parlando di “onda rossa”, e in effetti il rosso repubblicano (tinta che pure nella mappa delle midterm del 2010 non scarseggiava di certo) ormai è praticamente ovunque.
Per tutta l’estate e per buona parte dell'autunno gli addetti ai lavori, anche i più capaci, si sono chiesti se i repubblicani sarebbero riusciti a conquistare i sei fatidici seggi necessari per aggiudicarsi (per la prima volta dal 2006) la maggioranza anche al Senato, mantenendo quella alla Camera già espugnata nel 2010. Negli ultimi giorni, però, sondaggi alla mano questo esito è parso sempre più scontato: il tema del pronostico era divenuto più che altro la sua misura e la sua dinamica (il New Yorker, ad esempio, già ieri ad urne aperte da poco aveva pubblicato un’analisi della vittoriarepubblicana ormai certa).

Alla fine, il bilancio provvisorio (la conta dei voti non è ancora del tutto completata) è già da record: al Senato i Rep hanno conquistato almeno un seggio più del necessario (North Carolina, Colorado, Iowa, West Virginia, Arkansas, South Dakota e persino un seggio in Montana che i Dem detenevano da oltre un secono), e anche alla Camera – dove giàconservare i “territori conquistati” nel 2010 sarebbe stato molto - la loro maggioranza non ha solo retto: si è significativamente ampliata. Quando Obama si insediò nel 2009 i Dem avevano al Congresso 59 Senatori e 256 Deputati, e i repubblicani venivano descritti come sull’orlo dell’estinzione (memorabile una cover story di TIME in questo senso); ora, cinque anni dopo, i Dem si avviano ad avere 44 senatori e qualcosa come 180-190 deputati. I repubblicani si ritrovano con la più ampia maggioranza al Congresso dal dopoguerra, il che significa che la Casa Bianca non potrà più fare quasi nulla senza il loro consenso.

Se dalle elezioni parlamentari si passa a quelle deigovernatori (che contano moltissimo, non dimentichiamolo: gli USA si governano anche da lì), il conto che gli elettori americani hanno presentato al partito del presidente è ancora più salato. I repubblicani hanno vinto praticamente tutto quello che c’era da vincere: tutti gli Stati in bilico e anche qualche Stato che tanto in bilico non era considerato. In Texas la Democratica Wendy Davis, della quale vi avevano raccontato che aveva qualche possibilità di “far diventare viola” lo Stato (cioè di spostarlo dal rosso repubblicano al blu democratico – ma voi che mi leggete sapevate che era fuffa) non si è nemmeno avvicinata non dico alla vittoria, ma nemmeno ad una sconfitta in qualche modo onorevole: ha perso con distacco di circa venti punti percentuali, e – da femminista fieramente prochoice – non ha prevalso nemmeno tra l’elettorato femminile, mentre tra gli elettori latinoamericani (quelli che secondo la vulgata dovrebbero essere alla base del fantomatico “spostamento a sinistra” del Lone Star State) ha riportato uno dei risultati  più deludenti degli ultimi 20 anni. In Florida, dove i Dem hanno candidato quel Charlie Christ che ai tempi di Bush aveva governato lo Stato come repubblicano (e che aveva cambiato casacca dopo essere stato stracciato da Marco Rubio nelle primarie per il Senato), il governatore repubblicano Rick Scott – pur non essendo particolarmente popolare – è riuscito a strappare la rielezione, anche grazie al poderoso sostegno del governatore del New Jersey Chris Christie il quale ora aggiungerà certamente questa vittoria al suo dossier di aspirante candidato alla Casa Bianca. In Wisconsin il conservatore anti-sindacati Scott Walker, altro aspirante candidato alla presidenza, che molti davano per politicamente morto (suicida) già nel suo primo anno di governo, è stato trionfalmente rieletto con quello stesso confortevole vantaggio di 7 punti  con il quale aveva a suo tempo superato la prova del recall. E in queste ore si mostra già ben deciso a voler cavalcare questo successo per farsi candidare alla Casa Bianca sulla base della comprovata “eleggibilità” di un conservatore duro e puro come lui anche in un territorio tradizionalmente non troppo inclinato verso destra. Persino a casa di Obama, nell’Illinois solitamente dominato dalla famigerata machine della Chicago Democratica, i repubblicani sono tornati al governo dopo più di dieci anni.

E ora? Ora, al di là delle ovvie considerazioni sull'effetto "referendum", su Obama “anatra zoppa” che non potrà più sottrarsi ai compromessi con i repubblicani che sino ad ora non aveva saputo o voluto costruire, gli occhi di tutti sono su Hillary Clinton.

Frettolosamente adottata dai media come prima “donna alla Casa Bianca” in pectore (nonostante nel 2008 non le avesse portato bene), Hillary ora si trova per le mani un partito allo sfascio, vincente solo in California, nello stato di New York e in poche altre sparute roccaforti. Ma questo è il meno: in fondo, ci sarebbe di buono che ora i Dem possono solo far meglio. Il guaio peggiore sta nel fatto che Hillary e Bill in questa campagna elettorale si erano molto spesi: sono andati a portare la loro benedizione (e gli aiuti della mitica Clinton Machine) in Floria, nel “loro” Arkansas, in Kentucky… quasi ovunque il loro apporto si è dimostrato insufficiente. Certo, da qui a due anni può ancora succedere più o meno qualsiasi cosa (in fondo anche le midterm del 2010 erano andate malissimo per Obama, che però due anni dopo fu ugualmente rieletto - a onor del vero, però, le circostanze rendono queste midterm molto più simili a quelle del 2006, a parti invertite). Ma ad oggi lo scenario arride ai repubblicani. Aspettatevi, nei prossimi giorni e nei prossimi mesi, svariati “coming out” da parte di quegli esponenti del G.O.P. che nel 2012 si tennero in disparte, e stavolta invece non vedono l’ora di cimentarsi. Intanto, il più esuberante nel “trollare” su Twitter la povera Hillary è senza dubbio il senatore del Kentucky Rand Paul, ansioso di accreditarsi come uomo di riferimento dell’ala tea partier del partito:


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