giovedì 28 febbraio 2013

SEQUESTER-GATE, BOB WOODWARD CONTRO OBAMA

La Casa Bianca mi sta minacciando. Mi vogliono tappare la bocca perché proprio sul più bello, quando ormai il presidente era riuscito a convincere l’opinione pubblica che la colpa era tutta dei repubblicani, io ho rivelato che invece il cosiddetto “sequester” (ossia la disastrosa mannaia di mega-tagli “automatici” che fra poche ore si abbatterà sulle spese del governo federale) è stata un’idea – folle – di Obama. Questa, in estrema sintesi, la sorprendente denuncia di Bob Woodward, mostro sacro del giornalismo d’inchiesta americano e mondiale, che ieri ha sollevato un vespaio e non cessa di far discutere.

Doverosa premessa: per chi non lo sapesse, Woodward è un mostro sacro per via della sua storica inchiesta sul Washington Post con la quale quarant’anni fa, a quattro mani con il collega Carl Bernstein, fece scoppiare lo scandalo Watergate causando la rovinosa caduta dell’invincibile presidente Nixon, e forse ancor più per via della trasposizione hollywoodiana nel fortunatissimo film nel quale venne interpretato nientemeno che da Robert Redford. Grazie a ciò divenne un’icona vivente del giornalismo investigativo che non teme di sfidare il potere. In realtà il suo ruolo in quella vicenda è stato in più modi esagerato e mitizzato (ne parlai qui); ma si tratta di una mitizzazione troppo riuscita per metterla in discussione. Che si è poi autoalimentata, facendo sì che per decenni chi nelle stanze del potere di Washington aveva qualche confidenza scottante da far trapelare scegliesse proprio lui come confidente.
Di conseguenza, il fatto che sia proprio lui a muovere questo tipo di accusa crea inevitabilmente un effetto dieci volte più potente di quanto accadrebbe se le stesse cose le avesse dette un qualunque suo collega, magari anche bravo ed affermato.

La questione si è aperta sabato scorso, quando Woodward è uscito con un pezzo sul suo caro vecchio Washington Post nel quale, dopo aver ricordato che in campagna elettorale, nell’ultimo dei tre dibattiti televisivi contro Mitt Romney, Obama aveva dichiarato che il “sequester” era stato proposto non da lui ma dal Congresso (leggasi: dai repubblicani), e che la stessa cosa era stata confermata da Jack Lew, che all’epoca era il direttore del budget della Casa Bianca ed ora si accinge a divenire il nuovo Ministro dell’Economia, rivela che in realtà è vero il contrario: l’idea del “sequester” è stata concepita da Lew e dal suo staff, e approvata personalmente da Obama, e poi rifilata ai parlamentari repubblicani “molti dei quali mi hanno confessato di aver votato a favore senza essersi ben resi conto di cosa esattamente si trattasse”. In pratica, il pezzo di sabato accusa apertamente la Casa Bianca di aver spudoratamente mentito agli americani, creando ad arte questo guaio per poi dare la colpa all’opposizione - a spese del Paese.
Ma questo è niente. Il vero “botto” è scoppiato ieri, quando Woodward, intervistato dalla CNN, ha spifferato che quando la settimana scorsa ha telefonato ad un non precisato funzionario di altissimo livello della Casa Bianca (“uno dei quattro o cinque più coinvolti nei negoziati sul budget” –secondo BuzzFeed si tratterebbe di Gene Sperling, il capo dell’Economic Council della Casa Bianca) per preannunciare l’uscita del pezzo -un accorgimento naturale nel mondo del giornalismo politico americano – questi, furibondo, gli ha urlato contro per mezz’ora, e dopo avergliene dette di tutti i colori gli ha mandato una lunga email nella quale si scusava per aver alzato la voce, ma lo accusava di voler “attirare l’attenzione su pochi specifici alberi che danno un’impressione molto sbagliata della foresta”, e in conclusione gli rifilava questo inquietante commiato: “credo che tu ti pentirai di aver voluto a tutti i costi scrivere quelle cose”.
Apriti cielo: una minaccia mafiosa, un tentativo di intimidazione, proprio da parte della Casa Bianca, e proprio contro il giornalista-simbolo del coraggio di raccontare la verità anche facendo arrabbiare la Casa Bianca. A Woodward, che da una vita campa dell’immagine di giornalista scomodo, non dev’essere parso vero: ha pensato bene di rendere pubblico l’imbarazzante aneddoto.
“Io ormai sono vaccinato e ho già fatto la mia carriera”, si è divertito a raccontare a Mike Allen, una delle firme di punta di The Politico, “ma cosa succede se questo tipo email, con scritto “guarda che te ne pentirai”, la mandano ad un giovane reporter con un’esperienza di un paio o anche di dieci anni?”

E così, per una volta, Woodward è improvvisamente diventato un beniamino dei repubblicani (che di solito lo detestano), ed ha ricevuto attacchi di ogni genere dai colleghi più di sinistra. Sul New Republic, ad esempio, Noam Scheiber racconta che il suo ultimo bestseller (che parla proprio della vicenda dei negoziati sul budget) è tutto intriso di faziosità anti-Obama; Jonathan Chait sul New York Magazine si produce in un bizantino debunking nel tentativo di dimostrare che in realtà la lettura dei fatti di Woodward sarebbe viziata da una visione distorta del ruolo del presidente; e così via.
Intanto, il conto alla rovescia continua a ticchettare: l’ascia del “sequester” si abbatterà alla mezzanotte di oggi.
Uscito su Good Morning America

mercoledì 13 febbraio 2013

MARCO RUBIO GIA' IN PISTA. NON SARA' TROPPO PRESTO?


“Siamo sicuri che sia un vantaggio venire designato come “il Salvatore dei Repubblicani” con quattro anni di anticipo?”

Questo dubbio retorico espresso sornionamente su Twitter dal guru elettorale di Obama David Axelrod si riferisce alla cover-story dell’ultimo numero di Time, che per l’appunto ha presentato il giovane senatore della Florida Marco Rubio nientemeno che come “Salvatore dei Repubblicani”, in quanto “nuova voce” del partito che ha appena perso le elezioni presidenziali. Un po’ troppo e un po’ troppo presto, se davvero la sua ambizione è quella di divenire il candidato alla Casa Bianca nel 2016.

Lui stesso è parso pensarla a questo modo, a giudicare dalla sua reazione:

In effetti sentirsi definire già ora “il nuovo leader del partito repubblicano” (la definizione è di Chris Cillizza del Washington Post) rischia di rivelarsi un buon modo per “bruciare” il proprio potenziale di frontrunner per le prossime presidenziali; ma il rischio è ineludibile, dal momento che il giovane senatore della Florida è stato scelto per tenere ieri sera il tradizionale discorso di replica a nome del partito di opposizione per rispondere a quello del Presidente sullo Stato dell’Unione. Solitamente si tratta di un trampolino di lancio per un astro nascente del partito, e ieri sera è toccato a lui provare il salto.
Il discorso non conteneva sorprese, ovviamente; del resto si tratta solo formalmente di una replica, trattandosi ovviamente di un discorso preparato prima che il Presidente pronunziasse il proprio. E’ stato un discorso che suonava costruito a partire da un ragionamento molto semplice, quasi primitivo: nella sostanza, è Obama a spostarsi a sinistra e quindi l’opposizione repubblicana non ha bisogno di ricollocarsi, le basta tenere la postazione; nella forma, nel tono, l’esigenza è quella di scrollarsi di dosso l’inefficacia del miliardario aristocratico Mitt Romney, e trovare un volto e una voce più credibile per captare il malcontento della middle class. Se quindi nella sostanza la ricetta resta quella tradizionale repubblicana (meno Stato, meno tasse, e in teoria – la pratica è un’altra faccenda…. - meno spesa pubblica), nel tenore il messaggio è: “non siamo il partito dei vecchi bianchi ricchi”.
Ed ecco quindi il quarantunenne latino Rubio con la sua storia personale di figlio di immigrati cubani, papà barista e mamma cameriera, che nella Lando of Opportunity “ce l’hanno fatta” da zero con il sudore della fronte:
“Questa opportunità – di arrivare a far parte della middle class o anche oltre, non importa da dove si parte nella vita - non ci viene concessa da Washington. Viene da una pulsante economia libera nella quale le persone possono rischiare i propri soldi per aprire un'attività. E quando ci riescono, assumono più persone, che a loro volta investono o spendono i soldi che guadagnano, aiutando gli altri ad avviare a loro volta un’altra attività e a creare posti di lavoro”.
E quindi, sempre puntando alle preoccupazioni della middle class(da notare la prima persona singolare, nonostante il discorso dovrebbe essere a nome del partito):
“Signor Presidente, io abito ancora nello stesso quartiere operaio nel quale sono cresciuto. I miei vicini non sono milionari. Sono pensionati che dipendono dalla Social Security e dal Medicare. Sono lavoratori che domani mattina devono alzarsi presto per andare a lavorare per pagare le bollette. Sono immigrati, che sono venuti qui perché erano intrappolati in condizioni di povertà in Paesi in cui il governo dominava l'economia. Gli aumenti delle tasse e la spesa in disavanzo che Lei propone farà male alle famiglie della middle class. Costerà loro i loro guadagni. Costerà loro i loro benefici. Può costare ad alcuni di loro persino il posto di lavoro. E farà male agli anziani, perché non fa nulla per salvare Medicare e Social Security. Quindi Signor Presidente, io non sono contrario al suo programma perché voglio proteggere i ricchi. Sono contrario al suo programma perché voglio proteggere i miei vicini di casa”.
La performance oratoria di Rubio è stata brillante (fatta eccezione per un piccolo momento di defiance causa secchezza delle fauci placata dissetandosi da una bottiglietta d’acqua che incredibilmente nessuno aveva pensato di piazzare alla sua portata, il che lo ha costretto ad un gesto molto goffo che ha scatenato frizzi e lazzi su Twitter, ma che difficilmente passerà agli annali).
Resta però ancora da capire quanto filo ha da tessere; e resta da capire quanto gli giovi, e quanto gli noccia, spendere il suo potenziale già ora, più per tamponare il vuoto seguito alla sconfitta elettorale che per cavalcare un’onda.


martedì 12 febbraio 2013

E ORA, UN "PAPABILE" A STELLE E STRISCE?


Il Conclave che a breve si aprirà per scegliere il successore di Benedetto XVI sarà il primo al quale prenderà parte, eppure secondo alcuni potrebbe prendervi parte da “papabile”. Il nome di Timothy Dolan, dal 2009 arcivescovo dell’arcidiocesi di New York nonché dal 2010 presidente della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti (quindi, in altre parole, il “capo” dei vescovi statunitensi – ma questo mandato scade a breve), in queste ore ricorre tra quelli che i media danno tra i più favoriti come prossimo Papa.

Un papa americano? Possibile?
E’ molto accreditata l’ipotesi che il prossimo Papa non sarà europeo; ma solitamente la si intende nel senso che egli provenga da un Paese del Terzo Mondo, dall’Africa come il ghanese Appiah Turkson, o dall’America Latina come l’argentino Leonardo Sandri. Quella di un Papa a stelle e strisce, invece, suona come un’ipotesi eccentrica; eppure. “Ai tempi della Guerra Fredda” scrive il New York Times “sarebbe stato improbabile, ma oggi per la prima volta circola la voce che un americano, il Cardinale Timothy M. Dolan di New York, potrebbe essere in lizza come prossimo papa. Il suo profondo conservatorismo combinato con un carisma da uomo del popolo lo rendono popolare presso la comunità dei fedeli, in un’epoca nella quale la Chiesa è concentrata nella lotta per la “nuova evangelizzazione”.

D'altronde anche la sua elezione a capo della Conferenza Episcopale americana avvenne a sorpresa e fu letta da molti come conferma della sua capacità di imporsi come leader al di là dei pronostici più banali.
 Lui si schernisce: “preferirei rimanere arcivescovo di New York” ha detto ieri in una conferenza stampa, ed ha aggiunto che la sua nomina sarebbe “altamente improbabile”: “Sto ancora scrivendo i biglietti di ringraziamento per gli auguri per la nomina a cardinale” ha aggiunto scherzando, con lo humour per il quale è noto. I bookmaker per ora gli danno ragione (ci sono almeno una decina di cardinali che vengono dati per più “papabili” di lui), ma è presto per sbilanciarsi.

Corporatura imponente (Sua Immensità, pare che i sacerdoti lo chiamino a volte scherzando), origini irlandesi rese evidenti anche dall’indole gioviale e dall’incarnato rubizzo, Dolan è nato e cresciuto a St. Louis, in Missouri. Negli anni Novanta visse a Roma, dove fu rettore del Pontificio Collegio Americano; dopodiché venne ordinato arcivescovo di Milwaukee, in Wisconsin, dove Giovanni Paolo II lo mandò a porre rimedio agli scandali lasciati dal predecessore Rembert Weakland dimessosi dopo aver ammesso “relazioni inappropriate” con un uomo: nel 2004 fu uno dei pochi vescovi a pubblicare i nomi dei sacerdoti della sua diocesi accusati di pedofilia, anche se i suoi detrattori lo accusarono di essersi limitato a quelle prese di posizione mediatiche senza andare fino in fondo nel perseguire quelle malefatte. Infine nel 2009 approdò a New York (che è la arcidiocesi più prestigiosa degli Stati Uniti, e la più grande dopo quella di Los Angeles) su nomina di Benedetto XVI, che poi lo ha elevato Cardinale giusto un anno fa.

Dolan, come ricordato dal New York Times, si pone in perfetta sintonia con "B16" come è solito chiamarlo lui affettuosamente, nel collocarsi con convinzione tra coloro che nella Chiesa affermano la priorità, tipicamente ratzingeriana,della “nuova evangelizzazione”, ossia di una rievangelizzazione dell’ “Occidente secolarizzato”; ciò che forse lo differenzia maggiormente da colui al quale secondo alcuni potrebbe essere chiamato a succedere è invece la propensione a “sporcarsi le mani” con la politica senza tante ritrosie. Negli ultimi anni è stato protagonista dichiarato della battaglia contro la riforma sanitaria di Obama in quanto lesiva della libertà religiosa, nella parte in cui obbliga i datori di lavoro a includere nelle polizze sanitarie che essi devono obbligatoriamente pagare ai loro dipendenti anche la copertura assicurativa di contraccezione, sterilizzazione e aborto. Battaglia persa, sul piano prettamente politico; ma nel condurla, ha notato Jon Meacham l’anno scorso nel tracciare il suo ritratto tra le “100 persone più influenti del mondo” secondo TIME, egli ha comunque ottenuto un risultato enorme, ossia quello di “ricollocare se stesso e la sua Chiesa al centro del discorso politico nazionale, una piazza a lungo dominata dagli evangelici protestanti”.
La sua vicinanza al Partito Repubblicano parve sin troppo evidente quando alla fine di agosto egli portò la sua benedizione all’apertura della Convention Nazionale del Grand Old Party che a Tampa consacrava la candidatura presidenziale di Mitt Romney.

Ma ben presto la polemica rientrò allorché la sua benedizione venne inserita in extremis anche tra i rituali di apertura della Convention Democratica di Charlotte (benedizione nella quale peraltro egli approfittò sfacciatamente per lanciare severe allusioni antiabortiste e contro i matrimoni omosessuali - altra questione che lo ha visto contrapposto ad un leader Democratico, in questo caso il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo, cattolico ma divorziato, pro-choice e gay-friendly).
Infine, da segnalare il fatto che Dolan si è distinto in questi anni per un non comune talento comunicativo, imponendosi come vero e proprio “frontman” sulla ribalta mediatica (in tutti i modi: è attivo su Twitter ed ha anche un blog). In questo, se mai dovesse divenire Papa, somiglierebbe probabilmente più a Giovanni Paolo II che a Benedetto XVI. C’è poi una seconda affinità in questo senso: egli è uomo vigoroso e relativamente giovane (sessantadue anni), e quindi il suo avrebbe buone chance di essere un papato lungo, come quello di Giovanni Paolo II che divenne Papa a cinquantotto anni e lo rimase per ventisette.

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