giovedì 20 dicembre 2012

L'AMERICA DI BORK - E QUELLA DI KENNEDY

C’è uno strano verbo nel gergo politichese americano che è pressoché impossibile tradurre senza raccontare una storia. Il verbo è “to be borked” (“venire borkizzato”), e la storia è quella della mancata nomina alla Corte Suprema degli Stati Uniti di Robert Bork, il giurista conservatore scomparso ieri all’età di 85 anni.

Il primo luglio del 1987, Ronald Reagan - a poco più di un anno dal termine della sua presidenza - annunciò a sorpresa la sua decisione di candidare Bork alla Corte Suprema. Professore di Yale specializzato nel diritto dell’antitrust e poi – sempre su nomina di Reagan – giudice della Corte d’Appello del Distretto di Columbia (cioè della capitale Washington), Bork era un giurista molto brillante e preparato, ma era notorio il suo orientamento estremamente conservatore.
L’anno prima, Reagan aveva messo a segno i primi due “colpi” che avevano portato nella Corte la cosiddetta “rivoluzione conservatrice”: prima la promozione a Chief Justice (Presidente della Corte) del conservatore duro e puro William Rehnquist (il quale nel 1973 era stato il dissenziente estensore del parere di minoranza nella decisione della famosa causa “Roe contro Wade” che aveva introdotto in tutti gli Stati Uniti il diritto della donna a decidere liberamente di abortire), poi la nomina di Antonin Scalia, il quale in futuro sarebbe a sua volta divenuto il leader della componente conservatrice nella Corte. La nomina di Bork sarebbe stata il terzo tassello che avrebbe completato il disegno, riportando i conservatori in maggioranza e così sancendo la fine della egemonia giurisprudenziale progressista che durava dai tempi di Franklin Delano Roosevelt.

La scelta di Reagan era stata ufficializzata da appena 45 minuti, quando il senatore Ted Kennedy si presentò in diretta televisiva e pronunciò davanti alla nazione una invettiva spregiudicatamente terroristica, che avrebbe lasciato per sempre il segno nella storia della “polarizzazione” della vita politica statunitense. Eccone il passaggio più famoso:

“L’America di Robert Bork è una terra in cui le donne sarebbero costrette ad abortire nei vicoli, i neri tornerebbero a essere segregati nei ristoranti, la polizia irromperebbe nelle case dei cittadini con raid notturni, ai bambini a scuola non potrebbe più essere insegnato l’evoluzionismo, gli artisti e gli scrittori sarebbero censurati a piacimento del governo, e le porte dei tribunali faderali verrebbero chiuse sulle dita delle mani di milioni di cittadini. Nessuna giustizia sarebbe meglio di questa ingiustizia”.
Fu l'inizio di una guerra. Bork venne sottoposto alla più dura lapidazione mediatica dai tempi del Watergate. Finì sui giornali persino la lista delle videocassette che aveva noleggiato negli ultimi anni da Blockbuster (dopo quell’episodio, una legge – non una sentenza della Corte Suprema – vietò di pubblicare simili informazioni su un privato cittadino).

Durante le audizioni per la conferma della sua nomina al Senato (allora a maggioranza democratica: la Commissione Giustizia era presieduta dal futuro vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden), gli venne infine estorta la “confessione”: ebbene sì, egli riteneva che la Costituzione non prevedesse, in realtà, quel “diritto alla privacy” in forza del quale la Corte Suprema nel 1973 aveva affermato il diritto della donna di scegliere se abortire. Ma la sua demolizione - un classico caso di quello che giornalisticamente si definisce “character assassination” – era avvenuta non solo e non tanto sul merito del suo orientamento giuridico, quanto piuttosto convincendo l’opinione pubblica che egli era una persona piuttosto schifosa, un mezzo pazzoide, un mostro.
La sua candidatura venne bocciata con 58 voti contro 42: tutti i senatori Democratici tranne due votarono contro.

Da lì nacque il sarcastico neologismo “to be borked” per definire la trombatura di un candidato a qualche alta carica pubblica, messa a segno facendo “saltar fuori” ed enfatizzando a dovere qualche dato più o meno scabroso del suo curriculum, della sua biografia o della sua mentalità (a volte anche solo del suo aspetto fisico), che consenta di massacrarne l’immagine pubblica.

Per ironia della sorte, il secondo caso di “borkizzazione” della storia dopo quello originario subito da Bork stesso, toccò poco dopo proprio al giudice centrista che venne candidato al suo posto: Douglas Ginsburg, il quale si dovette ritirare quando “saltò fuori” (e venne “sbattuto in prima pagina”) il fatto che in passato, quando lavorava come professore di diritto, era stato un occasionale consumatore di marijuana - vizietto illegale, oltre che politicamente scorretto. Alla fine venne nominato un altro centrista, Anthony Kennedy, che avrebbe fatto per decenni da ago della bilancia all’interno della Corte.

Un anno fa apparve sul New York Times un articolo di Joe Nocera nel quale si riconosceva che con quella battaglia vinta i Democratici hanno iniettato nelle vene della politica americana un veleno la cui tossicità ancora oggi non è stata smaltita: “in un certo senso, quello fu l’inizio della fine del confronto civile in politica”.
Anche nel pezzo pubblicato ieri sera sul sito del NYT in morte di Bork, si ricorda come quella campagna fu l’inizio di una politicizzazione del processo di approvazione delle nomine che rende tendenzialmente impossibile l’approvazione di quelle di persone che abbiano espresso con chiarezza le proprie idee.
Della stessa idea Tom Goldstein, direttore del seguitissimo sito SCOTUSBLOG, la più cliccata fonte di informazioni sulla Corte Suprema, quella vicenda del 1987 “cambiò tutto, forse per sempre. Quella guerriglia ingaggiata da alcuni settori della sinistra americana legittimò le guerre ideologiche a terra bruciata su tutte le successive nomination alla Corte Suprema, per cui oggi ogni candidato che ambisca a quella nomina sta estremamente attento, ai limiti del ridicolo, a non dire nulla su come la pensa veramente”.
Di tutt’altro tenore la commemorazione sul sito di sinistra Gawker, il cui titolo dice già tutto: “Robert Bork era un orribile essere umano, e nessuno dovrebbe essere in lutto per il suo trapasso”. Come dicevo, a distanza di un quarto di secolo il veleno non è ancora del tutto smaltito. Anzi.

lunedì 17 dicembre 2012

AMERICA IN ARMI, LA COSTITUZIONE E LA CORTE SUPREMA

“Dobbiamo cambiare” ha detto al Paese ieri sera il presidente Obama nel suo accorato intervento alla veglia per le vittime della strage di Newtown, in Connecticut. Non ha spiegato, per ora, quali iniziative intenda adottare; molti però sono propensi a credere che qualcosa si muoverà sul fronte del “gun control”, delle limitazioni alla libera circolazione delle armi da fuoco, attualmente (e tradizionalmente) molto blande negli Usa. Tuttavia, è bene tener presente che in questo ambito gli spazi di manovra sono angusti, non solo per ragioni prettamente politiche ma anche per ragioni giuridiche. Non solo per via del Secondo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti, approvato nel 1791, che stabilisce “ il diritto della popolazione a portare armi”: anche in ragione di due sentenze della Corte Suprema intervenute nel 2008 e nel 2009, che hanno sancito una interpretazione “forte” di quella norma.

Fino al 2008, infatti, la portata di quella antica norma costituzionale era molto controversa, ed in due luoghi era in vigore il divieto di girare armati: nel District of Columbia, ossia la enclave amministrativa costituita dalla capitale federale Washington e da alcuni suoi sobborghi, e nella città di Chicago. Il divieto di porto d’armi a Washington DC, in vigore dal 1975, è stato falcidiato nel giugno del 2008 dalla Corte Suprema con la sentenza «District of Columbia versus Heller», dando ragione a Dick Anthony Heller, una guardia giurata che viveva in un quartiere pericoloso della città e rivendicava il diritto di portarsi a casa la pistola per difesa personale, quando smontava dal lavoro. Il giudice Antohny Kennedy, in quella come in moltissime altre decisioni, fece da ago della bilancia: si aggregò ai quattro giudici conservatori, determinando una decisione per cinque voti contro quattro, scritta dal leader della fazione conservatrice della Corte Antonin Scalia che ha confermato, dopo 217 anni di dubbi e discussioni, l’interpretazione “pro armi” del Secondo Emendamento: il diritto a detenere armi è un diritto individuale garantito dalla Costituzione, al pari degli altri diritti fondamentali del cittadino americano, e pertanto la Costituzione “non permette divieti assoluti nel possesso di pistole a casa e nel loro uso per legittima difesa”. Ovviamente il diritto ad avere armi non è stato certo affermato come un diritto al quale non possano essere poste limitazioni: al contrario, la sentenza ha confermato la legittimità di restrizioni nella vendita di armi, ad esempio il divieto di venderle a pregiudicati o malati di mente, così come le limitazioni al porto d’armi in luoghi pubblici.

Da notare che Barack Obama, che all’epoca era ancora solo il candidato alla Casa Bianca, si guardò bene dal criticare quella sentenza come i suoi molti sostenitori di area liberal speravano, ed anzi a sorpresa espresse esplicitamente il suo plausoe si affrettò a garantire che se eletto presidente avrebbe “tutelato i diritti costituzionali dei proprietari di armi da fuoco, cacciatori e sportivi rispettosi della legge”.


Esattamente due anni dopo, nel giugno del 2010, la Corte Suprema, con lasentenza «McDonald versus Chicago» scritta dal giudice Samuel Alito che è considerato l’unico attuale membro della corte conservatore quanto Scalia, ed anche stavolta pronunciata con il voto dei quattro giudici conservatori più quello di Anthony Kennedy, ha fatto piazza pulita anche dell’altro divieto “assoluto” di tenere armi, quello in vigore nella città di Obama. Nel fare questo, la Corte ha esteso all’ambito delle legislazioni locali lo stesso principio che nel 2008 aveva sancito in riferimento alle normative federali; sempre ferma restando la legittimità di “ragionevoli limitazioni” alla vendita e al porto d’armi, quella sentenza ha però affermato l’illegittimità del divieto di detenzione domestica.
Come si vede, oggi il Congresso potrebbe approvare restrizioni relative, ad esempio il divieto di vendere ai privati determinati tipi di armi cosiddette “da assalto” come il fucile da guerra che pare sia stato impiegato dall’autore del massacro nella scuola elementare di Newtown; non potrebbe però vietare la vendita di armi leggere o da caccia, come le altre quattro armi da fuoco che la madre e vittima dell’assassino aveva in casa. Un mamma, pare, che di mestiere faceva la maestra, e che ogni tanto oltre che al parco giochi portava i figlioli al poligono di turo. Il problema rimane per molti versi culturale, prima che normativo.

venerdì 14 dicembre 2012

VINCITORI E VINTI NELLA GUERRA PER IL DOPO-HILLARY


“Il presidente Obama ha deciso che alla fin fine gli conveniva spendere su altri fronti il tempo ed il capitale politico necessari per blindare la nomina della ambasciatrice all’Onu Susan Rice come suo prossimo Segretario di Stato”. Così stamattina il Washington Post commenta la decisione di Susan Rice di rinunciare alla propria candidatura alla successione per il dopo-Hillary: una scelta tattica di Obama, troppo impegnato in questi giorni nella trattativa sul “precipizio fiscale” per lasciarsi distrarre da un secondo fronte di scontro con l’opposizione repubblicana. Il presidente si è smarcato, insomma; ma ciò non toglie che questa sia stata per lui una sconfitta, con la quale non avrebbe certo voluto inaugurare il suo secondo mandato.


La Rice era notoriamente la sua prima scelta, e fa parte della ristretta cerchia dei suoi fedelissimi da molto prima che lui divenisse presidente. Per di più il Presidente su questa questione ci aveva volutamente “messo la faccia”: esattamente un mese fa, nella sua primissima conferenza stampa dopo la rielezione, aveva polemizzato con insolito accaloramento con i repubblicani, parlando come un che difende una cara amica prima ancora che come presidente: “se la prendono con lei perché la considerano un bersaglio facile, ma è con me che hanno problemi. Tentare di infangare la sua reputazione è vergognoso, se vogliono prendersela con qualcuno se la prendano con me”.



A ciò si aggiunge il fatto che la campagna dei repubblicani non aveva, sulla carta, i numeri per un efficace ostruzionismo che la rendesse tecnicamente impossibile: ai Democratici bastava racimolare cinque voti repubblicani da aggiungere a quelli dei propri 55 senatori. Se si considera che l'ultima volta che si era visto un fuoco di sbarramento per la conferma della nomina di un Segretario di Stato era stato nel 2005 contro Condi Rice, e alla fine l'approvazione, che ad oggi rimane la meno unanime nella storia degli Stati Uniti, fu per 85 voti contro 13, in un Senato perfettamente speculare a quello attuale (maggioranza 55, opposizione 45: i senatori dell’opposizione Democratica che votarono a favore assieme alla maggioranza Repubblicana furono 32). In definitiva, quindi, Obama pur avendo tendenzialmente “i numeri” non ha avuto la capacità politica di condurre in porto questa operazione. La sua presidenza “bis” non poteva aprirsi sotto peggiore auspicio: quante altre volte si vedrà costretto a cedere sotto il fuoco di sbarramento dell’opposizione durante il prossimo quadriennio?

Se il presidente, ovviamente assieme alla stessa Rice, è il grande sconfitto di questa battaglia, il vincitore è innanzitutto il vecchio senatore dell’Arizona John McCain, artefice e leader della crociata contro la Rice che ha lanciato come suo solito in modo eccentrico e solitario, tra lo scetticismo generale con al seguito uno sparuto drappello di due o tre senatori, e uscito trionfante da quella che in un certo senso è stata la sua piccola vendetta dopo la sconfitta inflittagli da Obama alle presidenziali del 2008 (vendetta contro Obama ma anche contro la Rice stessa, che nel 2008 guidava lo staff di Obama sulla politica estera ed in tale veste aveva attaccato McCain senza mezzi termini).

L’altro grande vincitore, peraltro senza colpo aver ferito a quanto è dato sapere, è un altro anziano senatore sconfitto qualche tempo fa in una elezione presidenziale: John Kerry, l’altro nome in cima alla lista per la successione ad Hillary, il quale dopo il passo indietro della Rice diviene automaticamente il favoritissimo. Non a caso il Washington Post, quando si è capito che aria tirava, ieri è uscito con un corsivo a firma di David Ignatius che sponsorizzava calorosamente la nomina di Kerry (affiancandosi in questo all’altro grande quotidiano liberal del Paese, il New York Times, che da mesi conduceva una vera e propria campagna affinché Kerry e non Rice venisse nominato Segretario di Stato). Sul suo nome i repubblicani hanno sempre ostentato un atteggiamento più che favorevole, e a questo punto è difficile dubitare che sia lui il prossimo ministro degli esteri americano.

Infine, proprio perché l’uscita di scena della Rice spiana la strada alla nomina di Kerry, c’è un terzo possibile vincitore in questa storia: se andrà a guidare il Dipartimento di Stato Kerry lascerà presto vacante il suo seggio senatoriale in Massachusetts, rendendo necessaria una elezione straordinaria per riassegnarlo. In questo caso tutti pronosticano che si rifarà avanti quello Scott Brown che nel 2010, sempre in una elezione speciale, riuscì rocambolescamente ad espugnare quello che era stato per una vita il feudo di Ted Kennedy, e che lo scorso 6 novembre è stato faticosamente sconfitto dalla Obamiana Liz Warren, ma ha pur sempre preso molti più voti di quando era stato eletto nel 2010. Le elezioni, come gli esami, non finiscono mai?

mercoledì 12 dicembre 2012

L'IMMIGRAZIONE ISPANICA E' FINITA?

Nel 2004 Samuel Huntington, il politologo conservatore di Harvard divenuto celebre in tutto il mondo per aver preconizzato prima dell’Undici Settembre lo “scontro di civiltà” (sua la definizione) tra Occidente e Islam, pubblicò un saggio dal titolo “Who are we? The challenge to America" (in Italiano sarebbe uscito come La nuova America. Le sfide della società multiculturale) nel quale lanciava l’allarme contro un altro genere di “scontro”: "il flusso continuo di immigranti ispanici, provenienti in massima parte dal Messico, minaccia di dividere gli Stati Uniti in due popoli, due culture e due lingue". Secondo Huntington, non solo i latinoamericani sono restii ad adattarsi all’american way of life, ma addirittura tendono a voler “ispanizzare” la società statunitense.

Giusta o sbagliata che fosse l’analisi di Huntington, di certo il dato di fatto era vero: l’immigrazione ispanica era un fenomeno di proporzioni epocali. Nel 2003 gli afroamericani avevano cessato di essere la più grande minoranza etnica degli Usa, venendo sorpassati dagli ispanici che erano divenuti quasi cinquanta milioni di persone (una moltitudine più vasta dell’intera popolazione del Portogallo o del Belgio).

Ora, la notizia è che questo fenomeno potrebbe essersi concluso. Mentre in questi giorni il Congresso si accinge a fronteggiare la eventualità di un nuovo tentativo di riforma della legge sull'immigrazione - una promessa elettorale disattesa da Barack Obama nel suo primo mandato e riproposta per il secondo, ottenuto anche grazie al decisivo voto "latino"- la questione va probabilmente inquadrata non nell'ottica di arginare nei prossimi anni uno Tsunami di immigrazione latinoamericana ancora crescente o comunque in corso, bensì in quella di gestire la coabitazione con una poderosa minoranza latinoamericana il cui afflusso verso gli Usa è stato sì negli scorsi anni molto massiccio, ma da qualche tempo si è sostanzialmente esaurito.

A proporre, dati alla mano, questa analisi decisamente in contrasto con il luogo comune della "emergenza immigrazione" al confine con il Messico è Michael Barone, insigne politologo di area conservatrice e coautore dell'enciclopedico “Almanac of American Politics”, in un corsivo appena apparso sulla National Review che anticipa il contenuto del suo prossimo libro, in uscita l'anno prossimo.

L’analisi di Barone (il quale si era già cimentato con il tema dell’immigrazione nel 2001, con il saggio “The New Americans: How the Melting Pot can work Again”) si basa su di uno studio pubblicato a maggio dal Pew Hispanic Centernel quale, incrociando i dati statistici forniti sia dalle autorità statunitensi che da quelle messicane, si rileva che durante il quinquennio 2005-2010 l'immigrazione dal Messico si è di fatto azzerata: al netto degli immigrati giunti negli Stati Uniti attraversando il Rio Bravo, sono di più (circa 20mila in più) quelli che al contrario se ne sono ritornati in Messico o in altri Paesi centro o sudamericani.
Dato eclatante, soprattutto se raffrontato con quello del quinquennio 1995-2000 quando gli "ispanici" immigrati negli Usa furono più di due milioni.

In particolare, l’inversione di tendenza si registra solo a partire dal 2007: in perfetta concomitanza con lo scoppio della bolla immobiliare (quello di muratore è il mestiere più diffuso fra gli immigrati messicani), cui ha fatto seguito nel 2008 l'avvento della Grande Recessione. In questo senso potrebbe non aver avuto tutti i torti Mitt Romney, quando all’inizio delle primarie se ne uscì a dire che a suo avviso la soluzione dell’emergenza immigrazione stava nella “auto-deportazione”, ossia nel fatto che una parte dei latinos se ne sarebbe tornata oltreconfine più o meno spontaneamente.

Barone sostiene non solo che il “reflusso” è stato causato dalla crisi economica (questo lo sostengono in molti), ma anche – e questo probabilmente è l’elemento più originale della sua teoria – che la fine della crisi non porterà con sé una ripresa dell’immigrazione ispanica, perchè nel frattempo l'economia messicana sta notevolmente migliorando. Le ondate migratorie, egli osserva, spesso finiscono repentinamente dopo una generazione, in modo tanto in atteso quanto lo era stato il loro inizio. In questo caso, potrebbe essere successo prima ancora che Obama divenisse presidente.

mercoledì 28 novembre 2012

LA CROCIATA DI MCCAIN & C. CONTRO LA RICE STA METTENDO NEI GUAI OBAMA


E così l’incontro di ieri fra Susan Rice ed il terzetto di senatori repubblicani che si oppongono alla sua nomina a Segretario di Stato, capitanato da John McCain, non è servito a creare un principio di distensione, ma anzi a gettare benzina sul fuoco

Era stata la Rice ad offrire questo incontro, e lo ha fatto con il chiaro intento di “concedere qualcosa” che potesse quanto meno ridimensionare la questione, come si è potuto notare anche dalle sue dichiarazioni all’uscita dal meeting nelle quali c’è mancato poco che si spingesse ad ammettere di aver sbagliato, come aveva chiesto McCain.

A poco a poco, quella che sino a pochi giorni fa sembrava ai più la fallimentare crociata di tre senatori in cerca di un po’ di visibilità si sta rivelando una operazione politica molto meno sprovveduta.
Lo dimostra il corsivo che il New York Times pubblica oggi a firma della popolare e caustica opinionista Maureen Dowd, la quale rivela ai lettori che la Rice, dopo la fumata nerissima di ieri, ha in agenda per oggi degli analoghi incontri con altri senatori repubblicani, i quali si stanno a vario titolo affiancando all’originario e sino a ieri isolato terzetto di McCain & C.
Tra questi il senatore del Tennessee Bob Corker, il quale, giusto per chiarire la propria visione in vista dell’incontro, ha già dichiarato alla stampa di ritenere Rice più adatta a presiedere il Partito Democratico che il Dipartimento di Stato (come dire che ha dimostrato di avere troppo a cuore gli interessi della sua fazione politica e troppo poco quelli del Paese).
Ma la gran parte del pezzo della Dowd è dedicato ai quesiti che oggi la Rice si vedrà formulare dalla senatrice Susan Collins del Maine, esponente di spicco della commissione sulla sicurezza nazionale, nota per essere una moderata e di aver in passato intrattenuto relazioni per nulla ostili nei confronti della Rice (la cui famiglia originaria proprio del Maine, dove i suoi nonni immigrarono dalla Giamaica). Eppure, anche dalla Collins viene una accusa di eccessiva politicizzazione: “se fossi un aspirante Segretario di Stato mi guarderei dall’andare in televisione a recitare quello che in buona sostanza è stato un ruolo politico”. Il senso della lista di domande che la Collins intende porre oggi alla Rice è quindi il seguente: la ambasciatrice americana all’ONU all’indomani dei fatti di Bengasi tentò di “edulcorare” la premeditazione terroristica perché fu indotta in errore dalle informative di alcune branche dell’intelligence, o perché la Casa Bianca pensò che in piena campagna elettorale “ammettere che si trattava di un attentato di Al Qaeda avrebbe distrutto la narrativa secondo la quale la Libia era la storia di un grande successo"?

E come se non bastasse la Dowd ci mette del suo, rivolgendosi al lettore medio del New York Times presumibilmente incline a pensare che le critiche dei senatori repubblicani siano solo il frutto di cinica faziosità: anche se fosse, osserva, “se la Rice non riesce a tener testa a qualche molesto politico repubblicano, come potrebbe mai negoziare con la Cina?”

Beninteso: la campagna contro la nomina della Rice continua a non avere i numeri per un efficace ostruzionismo che la renda tecnicamente impossibile: nessuno oggi scommetterebbe sulla eventualità che i Democratici non riescano a racimolare i cinque voti repubblicani da aggiungere a quelli dei propri 55 senatori. Quindi, dove sperano di arrivare McCain e i suoi, e perché la Rice comincia a dare segni di cedimento come se fosse lei, e non i suoi accusatori, ad essere in cerca di una mossa per uscire dall’angolo?
La risposta a questo quesito risiede in quanto dichiarato sabato mattina da John McCain in una intervista televisiva: “il problema non è la Rice, è il presidente Obama”. Illuminante in questo senso un altro corsivista del New York Times, Stanley Fish, il quale ieri sul sito del quotidiano liberal ha lanciato un grido di allarme rispetto alla efficacia della trappola che i senatori repubblicani stanno facendo scattare non contro la Rice, ma contro Obama. Secondo Fish i repubblicani avrebbero infatti messo a segno una win-win strategy, un gioco dal quale usciranno vincitori in ogni caso. Se Obama non era realmente intenzionato a nominare la Rice al Dipartimento di Stato, a questo punto è costretto a comportarsi come se lo fosse stato, altrimenti sembrerà aver calato le braghe. Se lo fosse stato realmente, non può comunque mollare, sempre per la stessa ragione: l’ala sinistra del partito democratico si infurierebbe e lui passerebbe per un vile opportunista. E’ quindi costretto a tenere il punto, ma nel farlo dovrà inaugurare il suo secondo mandato con una spiacevolissima, lunga ed imbarazzante rissa, dalla quale nella migliore delle ipotesi uscirà con la nomina di un Segretario di Stato indebolito e screditato. I repubblicani sono quindi riusciti a spingere il presidente in un vicolo cieco, scrive Fish, “a meno che Hillary non lo salvi annunciando di averci ripensato e di voler rimanere a capo del Dipartimento di Stato”.
Ma Hillary, pare, ha altri programmi.


lunedì 26 novembre 2012

NON SOLO DEMOGRAFIA: PERCHE' ROMNEY HA PERSO


Venti giorni dopo la rielezione di Obama è pressoché terminato lo scrutinio totale, ed il risultato che si delinea è che il Presidente ha preso poco più 64 milioni e 800mila voti popolari, circa cinque milioni e mezzo meno di quelli con i quali era stato eletto quattro anni fa, mentre Mitt Romney ne ha ricevuti poco meno di 60 milioni e mezzo, quindi contrariamente a ciò che si era detto in un primo momento non ha perso nemmeno uno dei voti presi nel 2008 dallo sconfitto John McCain – anzi ne ha presi qualche centinaio di migliaia in più. In termini di percentuali, Obama ha vinto di un soffio la maggioranza assoluta del voto popolare (il dato finale dovrebbe assestarsi tra il 50,8 e il 50,9%), mentre Romney si è fermato poco sopra al 47% (e comunque sotto al 47,5).

A questo punto, risultati definitivi alla mano, si possono tirare le somme e si può vagliare criticamente la vulgata emersa all’indomani del voto, stando alla quale la rielezione di Obama si potrebbe spiegare semplicemente con l’incremento della consistenza elettorale di quelle minoranze etniche, in primis latinoamericani ed afroamericani, che già quattro anni fa erano stati una delle chiavi di volta della sua “coalizione” e che quest’anno si sono compattati ancora di più nel sostenerlo nelle urne.

E proprio così? Davvero questo dato – indubbiamente vero e determinante – è sufficiente per spiegare questa vittoria di Obama, e simmetricamente l’erosione dell’elettorato “bianco” basta a spiegare la sconfitta di Mitt Romney e magari anche a prescrivere il da farsi per il Partito Repubblicano del futuro prossimo?

Nel 2008 l’elettorato era “bianco” solo al 74%, ma il dato più significativo è che il vantaggio del candidato repubblicano John McCain in quel gruppo di elettori fu “solo” di 12 punti percentuali: Obama ottenne il 53% dei voti complessivi e – pur essendo egli stesso afroamericano - ben il 43% dei voti dei “bianchi”, moltissimi, praticamente la stessa percentuale record che Bill Clinton aveva raggiunto nel 1996.
Ma si tratta di un dato complessivo nazionale che non deve trarre in inganno: se osservato nella sua distribuzione sul territorio, assume un significato molto, molto diverso.


Se l’esito dell’elezione fosse dovuto solamente alla massiccia convergenza su Obama del voto della “nuova America etnica” demograficamente in aumento, il “vecchio bianco” Romney sarebbe stato una vittima più o meno incolpevole delle inarrestabili tendenze demografiche in atto: non a caso in una conference call post-elettorale con i suoi finanziatori egli stesso ha tentato di avallare questa idea, fondendola con quella famigerata del “47% di mantenuti”, ed affermando che alcune “elargizioni” assistenzialiste come ad esempio l’introduzione della assicurazione sanitaria gratuita prevista da ObamaCare per persone con reddito molto basso hanno garantito ad Obama il consenso di afroamericani e latinoamericani che notoriamente appartengono in gran parte alle fasce meno abbienti della popolazione.

In realtà le cose non sono così semplici. Per intuirlo, in effetti, non era indispensabile disporre dei dati precisi su questa elezione: bastava far mente locale sul fatto che appena due anni fa, in elezioni di mezzo termine tenutesi in un contesto demografico sostanzialmente identico a quello attuale, i Repubblicani avevano conseguito la loro più grande vittoria elettorale parlamentare dell'ultimo secolo ed avevano strappato ai Democratici il governatorato in una dozzina di Stati. Non era quindi pensabile che tutto ciò che è cambiato dal novembre del 2010 al novembre del 2012 fosse imputabile al fattore demografico in favore dei Democratici, che è una realtà importante ed arcinota da anni ma non è “tutto”. In fondo, l’elettorato americano è tutt’ora “bianco” per oltre il 70%: il voto delle minoranze è ben lontano dal poter essere di per sé sufficiente per vincere.

Nel 1980, quando si formò la cosiddetta Reagan Coalition, i “bianchi” rappresentavano l’88% dell’elettorato. Otto anni dopo, quando Reagan terminò il suo mandato, erano ancora l’85%. Nel 2000, quando fu eletto per la prima volta Bush figlio, i “bianchi” erano l’81% degli elettori; nel 2004, quando fu rieletto, erano il 77%. Nel frattempo, il vantaggio del Bush di turno presso l’elettorato “bianco” rimase pressoché invariato: di 19 punti percentuali per Bush padre nel 1988, di 17 per Bush figlio nel 2004.
Quest’anno la percentuale “bianca” dell’elettorato è scesa al 72%, mentre il 13% è “nera” come quattro anni fa, e quella ispanica è salita dall’8 al 10%. Romney ha avuto la maggioranza del voto “bianco” con il 59%, solo quattro punti percentuali in più di McCain 2008 ma ben venti punti percentuali più di Obama che presso gli elettori “bianchi” è sceso al 39%.

Ma si tratta di un dato complessivo nazionale che non deve trarre in inganno: se osservato nella sua distribuzione sul territorio, assume un significato molto, molto diverso.

Innanzitutto, il primato di Romney – e quindi anche il “calo” di Obama – presso l’elettorato bianco risulta fortemente concentrato negli Stati del Sud. Il “Vecchio Sud” è da decenni – tendenzialmente dai tempi di Reagan - una roccaforte repubblicana, ma questo tasso di concentrazione è quasi senza precedenti. In svariate contee del Kentucky piuttosto che del Tennessee o della Louisiana, il risultato di Obama presso gli elettori bianchi è stato il peggiore dagli anni Sessanta – venti o trenta punti percentuali meno di quelli ottenuti dal “nordista” John Kerry otto anni fa.

Ma fuori dal Profondo Sud, la performance di Romney con gli elettori bianchi non è stata affatto trionfale: le percentuali sono inferiori a quelle di Bush. Solo negli Stati dove il candidato repubblicano avrebbe vinto comunque i bianchi sono accorsi a votare in massa per Romney. In Stati incerti assolutamente decisivi, come Ohio e Colorado, Romney ha ottenuto una percentuale di voti “bianchi” maggiore di quella di McCain, ma si è registrata una affluenza al voto degli elettori bianchi piuttosto modesta; in altri swing-states come Iowa e Virginia l’affluenza è stata alta ma Romney non ha ottenuto le stesse percentuali grazie alle quali Bush aveva vinto in quegli Stati.

In definitiva, la sconfitta di Romney non risulta causata solo dalle tendenze demografiche e dalla capacità di Obama e dei Democratici di farsi votare dalle minoranze etiche: anzi, è discutibile che questo sia stato anche solo il fattore principale. Lasciate perdere, quindi, le spiegazioni monocausalistando alle quali il risultato di questa elezione era "inscritto nella mappa demografica del paese" perché ormai "la maggioranza bianca diventa minoranza". Non accontentatevi delle semplificazioni stando alle qualiadesso per i Repubblicani "la caccia al voto ispanico, nero, asiatico è vista come la sola speranza di recupero". Certamente sarà una delle principali speranze di recupero, ma certamente non sarà la sola, ed è importante capire il perché. Se Romney non ce l’ha fatta, ciò si deve in buona misura anche al fallimento da parte del candidato repubblicano presso il “vecchio elettorato bianco”, fuori da quelle regioni “sudiste” dove tendenzialmente i repubblicani vincono comunque, e nelle quali quindi aumentare i voti non è loro di alcuna utilità. Il che spiega anche perché i sondaggi nazionali hanno dato Obama a forte rischio di mancare la rielezione, mentre quelli condotti negli swing states davano per quasi scontata la sua vittoria.
Degli undici Stati in cui gli elettori bianchi sono tutt’ora più dell’80%, Obama ne ha vinti cinque e Romney sei. Quelli vinti da Obama sono per lo più Stati del New England a forte inclinazione liberal, ma non solo: anche l’Iowa ed il cruciale Ohio.

Vediamolo nel dettaglio il caso dell’Ohio, lo Stato decisivo per definizione. Lì Obama ha vinto il 53% del voto ispanico, ma di gran lunga più determinante è stata la sua vittoria presso gli elettori bianchi del Buckeye State. Secondo Allison Kopicki e Will Irving del New York Times, in Ohio il presidente l’avrebbe spuntata anche se gli ispanici avessero votato lui al 22% e per Romney al 78%: un po' perché i votantu bianchi hanno scelto Obama al 41%, e un po' perché in molti hanno disertato le urne, facendo aume ntare il peso percentuale degli elettori afroamericani. 

Gli exit polls suggeriscono qualcosa anche quanto alle possibili cause di questa performance deludente di Romney. Innanzitutto, balza all’occhio il fatto che Romney abbia migliorato rispetto a McCain 2008 il tasso di consensi presso le famiglie con un reddito superiore ai 50mila dollari all’anno, ma al contrario ha registrato consensi inferiori a quelli di McCain presso le famiglie con un reddito inferiore. Questo pesa, perché i quattro anni trascorsi sono stati anni di crisi economica e questo ha fatto sì che la porzione di elettori etichettabili come appartenenti al ceto medio-basso sia aumentata (dal 19 al 21% secondo Fred Bauer della National Review).

Ma non è tutto. Fra tutti i quesiti cui gli elettori hanno risposto all’uscita dal seggio, quello che vede sconfitto il candidato repubblicano con la percentuale più schiacciante è: “quale dei due candidati si interessa di più dei problemi della gente come te?”. Risposta: Obama 81%, Romney 17%. Come dire che anche per molti elettori repubblicani Romney “non è uno di noi”.
Cito una fonte davvero non sospettabile di simpatie per Obama, ossia Jay Cost, il quale sull'ultimo numero del settimanale neoconservatore Weekly Standard ha riassunto così la questione:

La campagna di Obama contro Romney, che lo ha descritto come un plutocrate disconnesso dalla gente normale, sembra aver avuto successo. Il tasso di popolarità di Romney degli exit poll era di solo il 47%, contro il 50% del tasso di impopolarità. Un formidabile 53% contro il 34%, degli elettori intervistati ha detto che le politiche di Romney avrebbero favorito i ricchi invece della classe media. In altre parole, Romney ha perso in gran parte a causa di un drastico deficit di empatia. In generale è un problema che in qualche misura tende ad affliggere tutti i candidati repubblicani, anche quelli vincenti; ma quest'anno è stato più acuto e sembra essere stato determinante. Gli elettori che si sono recati alle urne il giorno delle elezioni si sono identificati più con Obama che con Romney, e chi è rimasto a casa probabilmente non si è identificato con nessuno dei due. È importante sottolineare che questo problema ha trasceso età, razza, etnia e genere. Rispetto a Bush nel 2004, Romney semplicemente non è riuscito a connettersi con la gente.
Amen.

giovedì 15 novembre 2012

L'ULTIMA BATTAGLIA DI MAVERICK

Contrariamente alle speculazioni della prima ora, che lo davano come più probabile successore ad Hillary Clinton a capo del Dipartimento di Stato, il senatore del Massachusetts John Kerry è invece candidato a succedere a Leon Panetta nel guidare il Dipartimento della Difesa; il nome che Obama vuole per il dopo-Hillary è invece quello dell’attuale ambasciatrice americana all’Onu Susan Rice, e su questo nome si sta scatenando il primo vero scontro post-elettorale tra il presidente e l’opposizione repubblicana.

Il Senatore dell’Arizona John McCain, che da decenni è una delle colonne del Partito Repubblicano nella commissione Difesa del Senato (assieme allo stesso John Kerry, con il quale ha invece buoni rapporti), e che nel 2008 fu sconfitto da Obama nell’elezione alla Casa Bianca, ieri ha lanciato una vera e propria campagna per boicottare questa nomina senza nemmeno attenderne la formalizzazione, presto seguito dal senatore Lindsey Graham del South Carolina e da altri.
Quello che McCain ed altri contestano come indice di inadeguatezza della Rice è il ruolo che essa ebbe nelle polemiche seguite alla strage all’ambasciata americana di Bengasi lo scorso Undici Settembre. Rice era stata infatti la principale sostenitrice della tesi, poi ritenuta errata dai più, secondo la quale quella tragedia sarebbe scaturita da una sommossa “spontanea” motivata da un video blasfemo contro Maometto, e non da un attacco premeditato di terroristi islamisti. Rice si è sempre giustificata sostenendo che al momento quella era l’indicazione che le davano le informative dell’intelligence, ma McCain e Graham sostengono di non crederle – cioè le danno pubblicamente della bugiarda.
“Farò tutto ciò che in mio potere per tentare di impedire questa nomina”, ha minacciato ieri McCain in una apposita conferenza stampa; poco prima, intervistato su Fox News, ha agitato esplicitamente lo spauracchio dell’ostruzionismo. In realtà la conferma della nomina da parte del Senato richiede il voto di 60 senatori su 100: i Democratici nel nuovo Senato sono in 55, quindi basta che cinque senatori repubblicani non seguano McCain nella sua nuova battaglia per decretarne il fallimento. La voce di McCain èm molto autorevole ma è pur sempre quella di un Maverick, uno che si è sempre mosso come un cane sciolto più che come un disciplinato leader parlamentare; attualmente nessuno è disposto a scommettere che il gruppo repubblicano al senato sia disposto a seguirlo compattamente. 

Ieri nella sua prima conferenza stampa dopo la rielezione il presidente Obama, che pure ha ostentato sangue molto freddo sia sulla questione del precipizio fiscale che sullo scandalo che vede coinvolti l’ex generale David Petraeus ed il generale John Allen, ha invece polemizzato con sorprendente accaloramento su questa questione, accusando i repubblicani di comportarsi come se fossero ancora in campagna elettorale: “Se la prendono con lei perché la considerano un bersaglio facile, ma è con me che hanno problemi. Tentare di infangare la sua reputazione è vergognoso, se vogliono prendersela con qualcuno se la prendano con me”.

Donna, come con una singolare continuità sono state tutte le persone a capo degli Esteri nel governo degli Stati Uniti negli ultimi vent’anni, e come Obama afroamericana ma di estrazione sociale agiata (suo padre lavorò al vertice della Federal Reserve, la madre è una ricercatrice della Brookings Institutions) e di famiglia parzialmente multietnica (ha sposato un giornalista e produttore televisivo di origini canadesi), Rice aveva lavorato per il Dipartimento di Stato all’epoca della presidenza Clinton, tra il 1993 e il 1997, su indicazione dell’allora Segretario di Stato Madeleine Albright che è per lei una sorta di mentore; al fianco di Obama sin da prima della sua candidatura alla Casa Bianca, nel 2008 bcontribuì non poco ad elaborarne il programma di politica estera anche in contrapposizione con il curriculum di Hillary Clinton che in origine era l’avversaria nelle primarie (un punto di distinzione su tutti: la contrarietà dalla prima ora alla guerra in Iraq). Nel dicembre del 2008, appena eletto e non ancora insediato alla Casa Bianca, Obama la nominò ambasciatrice Usa presso le Nazioni Unite, ed in questa veste ha giocato un ruolo di primo piano in molte delle vicende di politica estera di questi quattro anni, in primis la guerra in Libia della quale è stata una fautrice.

lunedì 12 novembre 2012

IL FUTURO DI PAUL RYAN



"Paul Ryan non può perdere": così si intitolava il lunghissimo pezzo di Mark Leibovich uscito un mese fa sul New York Times Magazine come storia dicopertina. La tesi cui alludeva il titolo è semplice: se il moderato opportunista Romney avesse vinto l’elezione, Ryan sarebbe diventato la sua garanzia per vincere le diffidenze dell’ala conservatrice del partito; se invece le avesse perse, sarebbe stato uno dei principali punti di riferimento nella necessaria rigenerazione del mondo repubblicano. La classica win-win strategy, insomma. Ora che si è avverata la seconda ipotesi, ci si interroga sulla possibilità che veramente Ryan esca vincitore da questa sconfitta, o quanto meno che riesca a sopravvivere politicamente conservando un ruolo di primo piano.

Naturalmente molto dipenderà anche dalla valutazione del ruolo che Ryan ha avuto in questa sconfitta: se la sua presenza al fianco di Romney abbia contribuito a contenerla o se abbia invece contribuito a cagionarla. Di certo i dati smentiscono quella che a lungo è stata la più pesante valutazione sul possibile impatto negativo della sua scelta come vice, ossia la teoria della perdita di voti di elettori anziani spaventati dalle sue proposte di tagli al piano di assistenza previdenziale Medicare: si era detto e ripetuto che a causa di ciò Romney si sarebbe giocato la Florida, stato dei pensionati per definizione, e invece nonostante alla fine in Florida il ticket Romney-Ryan abbia effettivamente perso, anche se per meno di un punto percentuale, gli exit polls ci dicono che non solo non ha perso tra gli elettori anziani del Sunshine State, ma anzi proprio tra questi ha vinto con un margine doppio rispetto a quello con il quale John McCain (anziano egli stesso) aveva vinto quattro anni fa (tra gli elettori senior della Florida McCain aveva prevalso su Obama con il 53% contro il 45% di Obama; Romney ha prevalso con il 58% contro il 41).

Ad ogni modo, è un fatto che storicamente la candidatura alla vicepresidenza degli Stati Uniti nel ticket risultato perdente non è mai stata un gran trampolino di lancio; anzi, tutt’altro. 

Degli ultimi venti politici che si sono trovati a giocare in quel ruolo, due terzi (tredici in tutto) non hanno nemmeno osato tentare poi la candidatura presidenziale (l’ultimo esponente di questo sottogruppo, in ordine cronologico, è Sarah Palin); dei sette che invece ci hanno provato, solo due sono arrivati ad essere candidati alla Casa Bianca, mentre gli altri cinque sono stati fatti fuori già nelle primarie (il caso più recente è quello di John Edwards, preceduto di poco da quello di Joe Lieberman); i due che sono riusciti a candidarsi, ossia il democratico Walter Mondale contro Reagan del 1984 e il repubblicano Bob Dole nel 1996, sono poi stati sconfitti pesantemente nell’elezione generale.
Le ambizioni di Paul Ryan sono quindi ora totalmente controcorrente rispetto alla storica fisiologia della politica a stelle e strisce. Più che sul suo recente tentativo vice presidenziale, quindi, egli dovrà ripartire da ciò che stava facendo sino ad agosto, ossia dalla sua carriera parlamentare. E’ in quell’ambito, infatti, che Ryan era divenuto un precoce leader del partito repubblicano, passando in pochi anni da giovane e sconosciuto deputato del Wisconsin a presidente della importantissima Commissione Bilancio della Camera, riuscendo ad imporre il suo personale e controverso piano di tagli alle tasse e alla spesa come piattaforma repubblicana. Da quella postazione parlamentare Ryan è divenuto uno dei leader del partito, ed è divenuto il punto di riferimento soprattutto di quell’ala più conservatrice che tanto ha spinto perché Romney scegliesse lui come vice. Ora Ryan, nello stesso giorno in cui mancava l’elezione a vicepresidente, è stato rieletto per l’ottava volta consecutiva alla camera nel primo distretto del Wisconsin; ieri in un articolo apparso sul New York Times si ipotizzava che il partito gli offrirà la riconferma alla presidenza della Commissione Bilancio, esentandolo dalla regola del mandato unico solitamente rispettata in queste nomine.
Intanto da ieri Ryan ha ripreso a twittare con il suo vecchio profilo da deputato, dismettendo di fatto quello da aspirante vicepresidente  utilizzato da agosto sino a martedì scorso. Solo nei prossimi mesi si capirà quantifollower sono ancora disposti a seguirlo, anche in senso lato.

giovedì 8 novembre 2012

MALEDETTA FLORIDA

Stavolta il mondo non sta guardando: stavolta la Florida non è determinante, sarebbe servita a Mitt Romney per restare in gioco, ma non gli poteva bastare per strappare una vittoria che invece passava necessariamente da altri Stati in bilico che sappiamo ormai essere invece rimasti nella colonna di Barack Obama. L'esito dell'elezione presidenziale nel Sunshine State è quindi a questo punto ininfluente, e nessuno si tormenta per il fatto che ad oltre 24 ore dal concession speech dello sfidante sconfitto e dal victory speech del rpesidente rieletto quello Stato - e solo quello, su tutti i cinquanta in gioco - non si sia ancora colorato nè di rosso nè di blu nella mappa dei risultati elettorali. Tuttavia il fatto è singolare. Vediamo di capirne la ragione.

Determinante o no, a molti, di fronte alla difficoltà nello scrutinio del voto in Florida, è tornato in mente quando accadde dodici anni or sono, quando nell'elezione presidenziale del 2000 il candidato repubblicano George W. Bush strappò una risicatissima vittoria contro l'ex vicepresidente democratico Al Gore nonostante quest'ultimo avesse ricevuto più voti popolari (oltre mezzo milione di voti in più), proprio perché una manciata di voti popolari (537, per l'esattezza: pari allo 0,00009%) diedero la vittoria a Bush in Florida, assegnando al candidato repubblicano i Voti Elettorali (allora erano 25) di quello Stato.

Dato il microscopico margine, quella vittoria venne duramente contestata dallo sconfitto, il quale agli iniziali riconteggi meccanici effettuati per legge, che avevano già ridimensionato il vataggio di Bush inizialmente attestato ad altre 1700 voti, chiese un riconteggio manuale, che però non risultava compatibile con la scadenza che la legge imponeva di rispettare per la proclamazione del risultato definitivo. Il fatto è che in alcune contee si votava allora con le "punch card", cioé delle schede di cartoncino sulle quali non si scriveva ma si faceva in corrispondenza del nome del candidato un foro con una apposita macchina che però in svariati casi aveva fatto cilecca, producendo un rilievo ma non un foro: in molti di quei casi la scheda era stata considerata nulla, altri avevano decretato che la volontà del votante potesse considerarsi comunque validamente espressa, in alcuni casi ci si era messi a filosofeggiare sul fatto che il coriandolo prodotto dalla punzonatura si fosse staccato o meno dalla scheda, oppure si teorizzò che il voto era valido se nella sche da c'era comunque prodotta una fessura visibile in contrluce, e non lo era se si era prodotta solo una "pancia". Ciò ovviamente si tradusse in una vertenza legale, che un mese dopo arrivò fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti, la quale con una decisione molto controversa (votata da cinque contro quattro dei nove giudici) diede ragione al governatore della Florida, che allora era Jeb Bush fratello del presidente-forse-eletto, e al suo segretario di Stato Katherine Harris, e decretò che i riconteggi manuali nel frattempo avviati su ordine di un giudice distrettuale dovevano essere abbandonati ed il risultato inizialmente proclamato doveva considerarsi definitivo. Al Gore accettò quel verdetto la faccenda si chiuse lì, ma la questione creò immensi imbarazzi e tensioni mai del tutto sopite, e da allora in poi quel fantasma aleggia su ogni elezione incerta disputata negli Stati Uniti.
Proprio per via del pasticciaccio brutto del 2000, la Florida ha nel frattempo adottatto procedure di voto più moderne, in buona parte computerizzate; alle famigerate macchine punzonatrici si è sostituito non il puro e semplice voto elettronico in touchscreen, bensì un più sicuro sistema che prevede una votazione manuale della scheda cartacea, e la sua successiva scansione con un apposito "ballot scanner" che trmite la lettura ottica della scheda ne riversa il contenuto in un documento informatico. Ecco un filmato dimostrativo:
 Ma le maggiori garanzie che sgombrano il campo da molti problemi sulla correttezza dello scrutinio non hanno certo risolto, anzi se possibile hanno ulteriormente aggravato, quello della sua durata: e così, in una elezione come questa con margine molto esiguo si stenta a venire a capo dello scrutinio, in parte per la complessità della scheda elettorale (che consta di ben dieci pagine), in parte per l'inefficienza degli scrutatori addetti a supervisionare il tutto, ecco che la Florida è nuovamente la pecora nera dell'unione. 
Come già accadde dodici anni fa, una delle contee tutt'ora marcate da un imbarazzante punto di domanda è quella di Miami-Dade, dove risiedono un milione e trecentomila elettori, 400mila dei quali risultano essersi recati ai seggi martedì ed oltre 200mila dei quali risultano essersi avvalsi della facoltà di votare anticipatamente durante la settimana antecedente l'Election Day. 
E così i 29 Voti Elettorali della Florida sono ancora in attesa di essere assegnati, ad Obama che ha già vinto anche senza, o a Romney che a questo punto non saprebbe che farsene; ma in attesa ci sono anche alcuni dei candidati alla camera e al Senato da eleggere in quello Stato, e per loro la faccenda è molto più rilevante.


martedì 6 novembre 2012

ELECTION DAY (& ALL OF THE NIGHT)

Formalmente ha già avuto inizio questo Election Day 2012, nei mitici due paesucoli del New Hampshire "Dixville Notch" e "Hart's Location" che, come accade ogni volta da romai più di sessant'anni, sbrigano la pratica del voto (e anche quella dello spoglio) in pochi minuti, allo scoccare della mezzanotte. 

Per il resto degli Stati Uniti la faccenda sarà un po' più complicata: il voto, che ha luogo in cinquanta Stati e vede chiamati alle urne circa duecento milioni di elettori, avrà luogo durante tutta la giornata di oggi. Le urne si aprono tra le sei e le otto del mattino locali e le votazioni sino a sera: alla fine lo spoglio, che richiederà la somma dei voti di giornata con quelli già espressi in molti Stati con le votazioni anticipate, e con quelli inviati per posta dagli americani residenti all'estero, si protrarrà certamente in nottata, cioé fino alla mattinata di domani per chi segue dall'Italia.
Da notare che il voto popolare va contato Stato per Stato, perché formalmente non si tratta di un'elezione diretta: in ognuno dei 50 Stati si eleggono un certo numero di "Grandi Elettori" 8stabilito in porporzione alla popolazione dello stato), e il candidato alla casa Bianca che vince – anche di un solo voto! – in uno Stato si prende tutti i "Grandi Elettori" in palio (tranne in Maine e Nebraska, dove vige un sistema misto), che poi il 17 dicembre esprimeranno altrettanti "Voti Eelettorali" eleggendo il presidente e il vicepresidente degli Stati Uniti. 
Gli italiani che intendono seguire l'evento in diretta dovranno tenere presente li questa tabella di marcia, stilata tenendo conto sia degli orari di chiusura dei seggi (e quindi di pubblicazione degli exit polls) nei diversi Stati, sia delle quattro diverse fasce orarie in vigore negli Usa: 
Prosegue su Good Morning America  ...e per quanto mi riguarda, prosegue stanotte su SkTg24, dove dalle 4 alle 6 del mattino sarò ospite della speciale Maratona Elettorale. Ci si vede lì: canale 100 o 500 di Sky, oppure in streaming. Aggiornamenti in tempo reale e retroscena della maratona su Twitter: @aletapparini

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