martedì 26 luglio 2011

LA "CRISI" DEL TETTO AL DEBITO USA SPIEGATA A MIO FIGLIO


In default gli USA non ci sono mai andati, se non nella rappresentazione fantapolitica di una profetica (?) puntata della mitica serie TV “The West Wing”.
Nel mondo reale la storica prima volta potrebbe arrivare martedì prossimo, se il braccio di ferro tra la Casa Bianca (e la maggioranza democratica alla Camera) e l’opposizione repubblicana (al Senato) non dovesse in queste ore disinnescarsi con con un qualche compromesso.
Certo, in caso di default la festa di compleanno del Presidente (mezzo secolo giovedì prossimo, auguri) sarebbe ancora meno allegra di quella dell’anno scorsoma non sarebbe nemmeno la fine del mondo, posto che – come ha egregiamente spiegato il Prof. Bisin in un’analisi davvero cristallina uscita ieri su La Stampa  – non si tratterebbe certo di una crisi determinata da fattori di mercato (come accade quando nessuno vuol più prestare soldi ad un soggetto ormai così indebitato da rendere troppo rischioso il fargli credito), bensì autoimposta volontariamente con una precisa scelta politica, cioé il rifiuto – da parte del Senato a maggioranza repubblicana – di autorizzare un innalzamento della soglia fissata dalla legge come tetto massimo di indebitamento consentito (una norma che esiste solo in America, e che nelle intenzioni serve proprio ad evitare di ridursi ad un vero default “di mercato”, in stile greco per intenderci).
Mal che vada ce la si caverà con qualche giorno o qualche ora di government shutdown, cioé di chiusura temporanea di tutti i servizi pubblici federali non essenziali, sino a nuovo compromesso e riapertura dei rubinetti. Questo sì è già successo, diverse volte, l'ultima nel 1995-96 quando al posto di Obama c'era Bill Clinton e al posto di Boehner quel Gingrich il cui fantasma in questi giorni si aggira sempre più evanescente nelle primarie repubblicane.


E' dello stesso parere il Prof. Sandro Brusco, che oggi intervistato sempre su La Stampa (il quotidiano di Torino attinge a piene mani dal team di NoiseFromAmerika, e fa bene) spiega che in fondo non sarebbe nemmeno corretto parlare di default.

Trovo conferme anche nella analisi di Mario Seminerio su Il Fatto di oggi, dedicata alla (enorme) distanza tra la crisi del debito europea e quella americana.
Mario tiene ad enfatizzare la responsabilità di George W. Bush, e conti alla mano mi pare abbia le sue buone ragioni;  mi convince meno (ma può essere un mio limite, essendo io un ingorante sesquipedale nelle scienze economiche) il vigore con cui scuote il capo di fronte alla posizione dei repubblicani di oggi "egemonizzati dai Tea parties", decisamente poco bushiana, fatta di "feroci tagli di spesa e nessun aumento di imposte" (da queste parti lo chiamiamo modello texano).
Il titolare di Phastidio la ritiene una posizione scellerata in un momento in cui "la pressione fiscale federale è ai minimi degli ultimi 60 anni (circa il 15 per cento del Pil), e gli stati si muovono in modo pro ciclico, licenziando personale pubblico per raggiungere il pareggio di bilancio". Come dire che è favorevole all'alternativa "meno tagli, più tasse", ad esempio lasciando scadere i mega tagli temporanei alle tasse introdotti da Bush, come suggeriva giusto ieri.
Certo, capisco (solo perché me lo ha spiegato Mario, intendiamoci) che tagliare drasticamente la spesa pubblica da un punto di vista "keynesiano" può significare togliere ossigeno ad un'economia con il fiato già troppo corto. Ma è pur vero che tra i tempi dell'amministrazione Bush e i giorni nostri c'è stata l'approvazione, da parte di un Congresso democratico ed obamiano (con zero voti repubblicani alla Camera ed appena 3 al senato) di una manovra obaimana anti-recessione da 787 miliardi di dollari, fatta per meno del 40% da tagli fiscali e per oltre il 60% da spese federali: la spesa pubblica più massiccia approvata dal Congresso dai tempi di Franklin Delano Roosevelt. Eppure la "ripresa" è quella che è, per cui mi pare lecito dubitare che le ricette "keynesiane" stiano dando buoni frutti.

Ma, lo ripeto, in economia sono un asino e quindi mi limiterò ad osservare umilmente gli eventi.
Ricordando però, a scanso di equivoci, che la dismissione dei tagli fiscali di Bush fu sì promessa da Obama in campagna elettorale, ma venne da lui prontamente accantonata non - attenzione - dopo il poderoso reflusso delle midterm 2010, sotto ricatto dei repubblicani "egemonizzati dai Tea parties", bensì pochi giorni dopo l'elezione, nel novembre del 2008, con il Congresso a super-maggioranza democratica e il vento in poppa (poi la questione venne callidamente messa in sordina, salvo poi rispolverata quando ormai il Congresso era caduto in mano ai Rep. e quindi la proroga poteva essere giustificata come estorta dai cattivi).

giovedì 7 luglio 2011

IL PRESIDENTE SDOTTRINATO / 3


Oggi Fareed Zakaria - noto per essere uno degli intellettuali di riferimento di Barack Obama, ed occasionalmente addirittura suo consigliere sul Medio Oriente - in un corsivo sul Washington Post contribuisce a chiarire ciò che da tempo vado ripetendo (ad esempio qui, qui e qui), ossia la inesistenza di una "Dottrina Obama" in politica estera, che non sia quella di mantenersi volutamente privo di una vera "Dottrina".
Zakaria tiene a presentare questa assenza di dottrina come una scelta quasi obbligata e di estremo buon senso, dato che
Tutte le "dottrine" sulla politica estera americana tranne una sono state formulate durante la Guerra Fredda, per un mondo bipolare, quando la politica dell'America nei confronti di un solo Paese - l'Unione Sovietica - dominava l'intera strategia degli USA e rappresentava la questione decisiva di tutte le questioni di politica estera (la Dottrina Monroe è l'eccezione).
Ora, passi per quel "tranne una" che snobba sprezzantemente la dottrina che Zakaria dà per scontato sia disdicevole anche solo nominare; ma la sufficienza con cui viene relegata lapidariamente ad "eccezione" nientemeno che la Dottrina Monroe (ed ignorato tout court il cosiddetto "Corollario Roosevelt") tradisce la evidente forzatura dovuta alla volontà di dare plauso e copertura ad una scelta in realtà neiente affatto scontata e ancora tutta da verificare nella sua coerenza e nella sua efficacia.

In ogni caso, la questione veramente cruciale è quella che Zakaria pone in chiusura:
"il dato saliente della politica di questa amministrazione è il calcolo prudente su costi e benefici. La grande tentazione della politica estera americana, da Versailles al Vietnam all'Iraq, è stata quella di fare grandi proclami - enunciare dottrine - che hanno poi prodotto immensi impegni e costi".
La parola chiave è questa: "costi". In questi tempi di vacche magre - dice Zakaria e sembra ben interpretare il pensiero del presidente di cui è ammiratore e consigliere - una Dottrina in politica estera è un lusso che l'America non si può permettere. Men che meno se imperniata sull'idea della global leadership americana.

Sul punto consiglio anche la lettura del pezzo di Enrico Pedemonte uscito ieri su Linkiesta.
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UPDATE: il pezzo di Zakaria ha lasciato assai perplesso anche Michael Green, prof. di relazioni internazionali esperto di Asia, il quale questo pomeriggio (ora di Little Italy) pubblicato sul sito di Foreign Policy una critica che individua queste due "falle" nell'argomentazione di Zakaria:

La prima è storica. La Dottrina Monroe non è stata "l'eccezione che conferma la regola". C'è stata anche la Dottrina Tyler, che affermava il predominio strategico statunitense sulle Hawaii e il Pacifico orientale; e c'è stata la "Porta Aperta" di John Hay, che gli storici considerano una sorta di puntello per la Dottrina Monroe; e la Dottrina del non-riconoscimento di Henry Stimson; eccetera.
Ma ancora più importante è il secondo difetto nell'argomentazione di Zakaria. C'è una differenza tra dottrina e strategia. La dottrine articolano le aspirazioni per la strategia e quindi sono qualcosa di cui probabilmente si può anche fare a meno. La Strategia non lo è. Le piccole potenze possono anche vivere senza senza grandi strategie. Le grandi potenze no. O gli Stati Uniti cercano di imprimere una determinata direzione a regioni chiave come il Medio Oriente e l'Asia, oppure vanno avanti reagendo di volta in volta alle singole iniziative di poteri revansicsti e di forze interne a tali regioni fino a perdere la fiducia di amici ed alleati e a compromettere la supremazia americana".

Chiusura inclemente:

Se c'è una dottrina della quale non abbiamo bisogno in questo momento, è quella rappresentata dal finto realismo e dalla abdicazione rispetto rispetton alla leadership internazionale spacciata per "moderazione strategica".

Non finisce qui, immagino.

martedì 5 luglio 2011

I SEE THE FREEDOM TOWER RISING / 3


Il 4 Luglio di sei anni fa venne posata la "prima pietra" della Freedom Tower - venti tonnellate di granito nero con una incisione in onore di "the enduring spirit of freedom".
Per la edificazione del nuovo World Trade Center si trattò di una falsa partenza, ma ora le cose procedono speditamente: è stato superato il 70esimo piano, sui 102 previsti.
La foto qui sopra è stata scattata lo scorso 27 giugno, ad una settimana dal 4 Luglio di quest’anno, dall'interno della vasca Sud del memoriale.


In vista della ricorrenza, l’edificio in questi giorni è illuminato ogni sera con i tre colori della bandiera nazionale.
Già ora il costo stimato per la costruzione (3,3 miliardi di dollari) ne fa il grattacielo più costoso della storia d’America. 

venerdì 1 luglio 2011

“OBAMA E' STATO UN CAZZONE”


Posso dire una parolaccia?” Mark Halperin era in diretta, ieri mattina alla trasmissione “Morning Joe”, ma si è previamente premurato di appurare che ci fosse il "seven seconds delay", quel differimento di alcuni secondi che consente piccole censure anche sulla diretta. Il "bip" però non c'è stato, e tutta l'America ha potuto apprezzare il suo delicato giudizio (bisogna vedere  con che faccia sorniona e autocompiaciuta l'ha scodellato, per capire che non è stata una gaffe accidentale) a commento della conferenza stampa che il presidente aveva tenuto il giorno prima: “I think he was a kind of dick”, secondo me è stato una testa di cazzo (o "uno stronzo", secondo traduzioni meno letterali).
 Halperin è coautore di Game Change , il controverso bestseller retroscenista  sulle elezioni del 2008, in procinto di diventare anche un film per la HBO; è caporedattore per TIME (sul cui sito scrive anche il blog “The Page”, che ora ospita il suo contrito mea culpa), e fino a ieri era commentatore politico per la MSNBC - che però dopo questo siparietto lo ha immediatamente “sospeso a tempo indeterminato” (in pratica un quasi-licenziamento). Così impara a dire le parolacce al presidente.
Da non perdere lo show che ieri sera il mitico Jon Stewart ha cucinato sulla scena del dick ("la cosa più grandiosa che io abbia mai visto") ma ancor più sulle patetiche scuse che Halperin, portato per l'orecchio, era stato costretto a pronunciare già in diretta dopo il primo break pubblicitario.

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