giovedì 24 giugno 2010

MASTER AND COMMANDER (IN CHIEF)


Stavolta il Presidente Obama ha veramente giocato il Jolly.
Questa storiaccia delle dichiarazioni insolenti del Generale McChrystal era capitata proprio nel momento sbagliato. Per dirla con Maurizio Molinari:
“Peter Orszag, capo dell’ufficio Bilancio della Casa Bianca e garante dei conti pubblici, abbandona il prestigioso incarico per sposarsi con una star della tv Abc, mentre il capo di gabinetto Rahm Emanuel è obbligato smentire le voci di dimissioni da lui stesso alimentate. Senza contare che un tribunale federale boccia la moratoria delle trivellazioni ordinata da Obama nel Golfo del Messico, Pechino annulla all’ultimora una visita del ministro della Difesa Gates negando l’atterraggio al suo aereo e Mosca riguadagna influenza in Asia Centrale e Europa dell’Est. Che si tratti di gestione del proprio team, dell’emergenza della marea nera o di politica estera Obama appare ovunque sulla difensiva, bersagliato da dissensi e smacchi sempre più evidenti”.
Bel quadretto, non c'è che dire.
E ora, anche il supergenerale che sparla dei suoi capi senza ritegno.

Lasciandolo al suo posto Obama si sarebbe esposto al rischio di non saper difendere la propria autorità – per non parare di quella del suo vice.
Silurandolo rischiava di rendersi responsabile della decapitazione dell'operazione bellica afghana proprio nel momento più critico.
Il dilemma non era solo fare la cosa giusta, ma anche – forse soprattutto – farla nel modo giusto, nel modo appropriato per un credibile Commander in Chief.

Mentre McChrystal arrivava alla Casa Bianca per la resa dei conti, Lexington osservava:
“La preoccupazione per il lungo periodo è che nonostante tutto il da fare che Obama si è dato per tenere il punto in questo ambito – tenendo Robert Gates come ministro della difesa, evitando di commettere l'errore di Bill Clinton di intervenire troppo rapidamente sui diritti dei gay nell'esercito, intensificando la “guerra giusta” in Afghanistan nonostante tutti i rischi e le proteste dell'ala sinistra del suo partito – gli americani potrebbero ugualmente finire ancora una volta per pensare, come fecero prima che la situazione in Iraq si inasprisse, che I democratici sono meno bravi dei repubblicani nel gestire le forze armate e nel badare alla sicurezza nazionale. Il che potrebbe non influenzare più di tanto le imminenti elezioni di medio termine, che saranno piuttosto dominate dalle preoccupazioni per la situazione economica, ma potrebbe contare parecchio nel 2012, dato che per allora il Generale David Petraeus potrebbe essere sceso in politica”.

È stata senza dubbio la miglior mossa possibile quella infine azzardata dal presidente: come suggerito da Bill Kristol, e anche da Tom Ricks di Foreign Policy senza però osare pronosticarlo, Obama ha defenestrato McChrystal e lo ha sostituito proprio con il leggendario Petraeus.
Il che riduce al minimo ogni possibile diffidenza o critica, posto che pochi sarebbero disposti a mettere in dubbio che l'eroe del surge iracheno (nonchè massimo teorico in circolazione della “cointerinsurgency”) sia “più bravo” del suo ex sottoposto che va a rimpiazzare.
E al contempo disinnesca il rischio di un rivale pericoloso alle prossime presidenziali (stesso schema di gioco utilizzato mettendo Hillary al Dipartimento di Stato).
Aggiungiamoci pure il fatto che il rimpiazzo di McChrystal è un personaggio talmente popolare ed "ingombrante" che piazzandolo lì il presidente gli rifila la responsabilità dell'impresa agli occhi dell'opinione pubblica, ed evita così di metterci troppo la faccia (le cose non stanno andando benissimo, non si sa mai).
Un piccolo capolavoro: chapeau.

Per la seconda volta in tre anni King David dovrà fare il deus ex machina e salvare un presidente dal baratro di una guerra persa. In fondo per concedere l'agnonato "bis" si tratta solo di vincere in un anno quello che non si è riusciti a vincere in otto, ed è fatta.

PS: al Foglio la palma per il miglior titolo.

martedì 22 giugno 2010

"PAPA" WAS A ROLLING STONE?

“Appena mise piede nello Studio Ovale, Obama […] ordinò un incremento di 21mila soldati a Kabul, il più ingente dall’inizio della guerra nel 2001, e – su consiglio del Pentagono e dello Stato Maggiore dell’esercito - rimosse dall’incarico il generale David McKiernan – che all’epoca era il comandante in capo delle forze NATO in Afghanistan – e lo sostituì con un uomo che non conosceva ed aveva incontrato appena: il generale Stanley McChrystal.
Era la prima volta che un generale con un incarico di massimo livello veniva rimosso in tempo di guerra in più di mezzo secolo, dai tempi in cui Harry Truman fece fuori il generale Douglas MacArthur nel bel mezzo della guerra di Corea”.

È uno stralcio del pezzo del reporter freelance Michael Hastings pubblicato sul nuovo numero di Rolling Stone (che – lo preciso per i tre disadattati che lo ignorassero – è da sempre la “bibbia” degli appassionati di musica rock, ma ha anche ampie velleità politico-culturali “alternative”), che in queste ore sta tenendo banco oltreoceano al punto da oscurare le polemiche sulla perdita di petrolio nel Golfo del Messico.

In un ritratto di Guido Olimpio all'indomani della sua nomina, si leggeva: "Per molti dei suoi uomini il generale Stanley McChrystal è «il Papa». ascetico, un pranzo al giorno - di solito una cena leggera -, amante del jogging e del parlar chiaro".
Ecco: sul "parlar chiaro" del "Papa" McCrystal - e soprattutto di qualche suo chierichetto - è ora insorto un problemino. Il pezzo di Rolling Stone riporta varie dichiarazioni del Generale, e più ancora di suoi (anonimi) collaboratori, in cui si spara merda a tutto spiano sul presidente (al quale si imputa un approccio impreparato ed improvvisato), sul vicepresidente (canzonato come un politicante aggressivo ma inconcludente), e sui vertici dell’amministrazione, dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale (“un clown”) all’inviato della Casa Bianca in Medio Oriente (“sa che stanno per licenziarlo e questo lo rende pericoloso”).
Del resto è comprensibile che trent'anni di servizio alle Operazioni Speciali insegnino molte cose, ma non a tenere le pubbliche relazioni (puoi essere un mago nel fottere i terroristi, ma i giornalisti e i politici sanno essere anche più insidiosi...).

Quel che è peggio non sono le singole dichiarazioni, ma il tenore complessivo del pezzo, da cui si evince che secondo McChrystal le operazioni in Afghanistan non starebbero funzionando per colpa “dei politici”, dei soliti parolai di Washington che sgomitano solo per spartirsi il potere e non mettono i militari in condizioni di fare il loro lavoro.

"Il Papa" è stato convocato d’urgenza alla Casa Bianca (una semplice videoconferenza non sarebbe stata abbastanza umiliante); tutti i commentatori si aspettano che si presenti con le dimissioni in mano, e pronosticano che il presidente dovrà accettarle per non fare la figura del bamboccio (anche perché a quanto pare l'episodio, oltre che disdicevole, è anche sanzionabile ai sensi del Codice Unico di Giustizia Militare, il che complica le cose).

Dissente Toby Harnden del Telegraph, che fa notare come in realtà la scelta di dare un calcio in culo a McChristal sarebbe in questo momento la scelta più facile, mentre Obama mostrerebbe di aver molto più fegato lasciandolo dov’è.

In effetti è un bel dilemma: il presidente passa più da fesso a chiudere l’incidente con delle semplici scuse, mostrando di essere un Commander in Chief con poco polso (luogo comune che perseguita sempre i presidenti democratici, e quello attuale più di altri), oppure a far fuori il generale screanzato, ammettendo con ciò di aver scelto l’uomo sbagliato per un ruolo tanto cruciale (il che, poi, probabilmente non è nemmeno vero)?
Del resto, se morto un "Papa" se ne fa un altro, è pur vero buttare fuori McChrystal proprio adesso che in Afghanistan la situazione è "al limite" potrebbe avere conseguenze molto pesanti, posto che l’operazione in corso, non dimentichiamolo, è in buona parte una sua “creatura”.
Secondo me alla fine lo lasceranno stare.
Si accettano scommesse.

venerdì 11 giugno 2010

IL MITO DI MR. "HOPE" & "CHANGE" E' ESAURITO. E ORA?



Oggi su L'Occidentale:

Shepard Fairey è il quarantenne grafico e “artista di strada” che nel 2008 creò la fortunatissima immagine di Barack Obama rielaborata in stile pop-art ed accompagnata dalla scritta HOPE (speranza), divenuta la principale icona dell’obama-mania in campagna elettorale e non solo (l’originale è oggi esposto alla Smithsonian’s National Portrait Gallery di Washington).

Fairey è quindi a sua volta un personaggio-simbolo, un emblema vivente della componente di innovazione, rottura e “spinta dal basso” che ha caratterizzato l’elezione di Obama (non a caso creò l’opera che lo ha reso celebre senza curarsi di chiedere il consenso alla Associated Press, proprietaria dei diritti sulla fotografia da lui utilizzata, il che ha condotto alla solita, inevitabile causa).
Ebbene: in una recente intervista, Fairey si dice deluso da Obama, in quanto a suo dire “non si sta dando abbastanza da fare” e “non sta venendo a capo” della sua impresa.

Affermazione tanto più suggestiva, ove si consideri che il contesto dell’intervista è la sua nuova mostra newyorkese, intitolata "May Day", incentrata sul tema dell’immobilismo della vecchia politica di Washington – proprio quella cui Obama aveva promesso di dare un bel “taglio”.

Negli stessi giorni, il Los Angeles Times (autorevole testata non certo di orientamento conservatore) se ne esce con un pezzo il cui titolo sembra preso dalla prima pagina di Libero: “E’ rimasto ancora qualcuno che la Casa Bianca di Obama non ha ancora “comprato” dandogli un “posto”? Se sì, alzi la mano”. La tesi, se non si fosse capito, è che l’attuale amministrazione sta tentando di gestire il dissenso “sistemando” con uno strapuntino ogni potenziale rompiscatole in circolazione, come nelle migliori tradizioni della vecchia e cinica politica politicante. Un modo di lavorare molto in linea con la politica di Chicago nella quale Obama si è formato, ma molto distante dall’immagine di “speranza” e “cambiamento” che era riuscito a costruirsi e alla quale i suoi elettori si erano tanto affezionati.

A proposito di immagine: l’articolo del L.A. Times è commentato sul sito The Daily Beast (che raccoglie opinioni ed analisi di tendenza repubblicana moderata, centrista e bipartisan), da Mark McKinnon. Ex cantautore country-rock, poi esperto di comunicazione pubblicitaria e politica, McKinnon , oltre a curare l’immagine di personaggi come Bono ed il campione di ciclismo Lance Armstrong, ha lavorato ad entrambe le elezioni di George W Bush alla Casa Bianca. Nel 2007 è stato uno dei più stretti collaboratori di John McCain. Ha fatto parte dei cosiddetti “cinque di Sedona”, la ristretta cerchia di fedelissimi che non hanno abbandonato il senatore dell’Arizona nemmeno nel momento più difficile della campagna preliminare alle primarie. Poi, nel maggio del 2008 – proprio quando McCain aveva ottenuto la candidatura e la sua impresa cominciava a sembrare meno disperata del previsto – si dimise perché, disse, apprezzava il “grande messaggio” che sarebbe potuto scaturire dall’elezione di Barack Obama, e non intendeva lavorare contro un simile avversario. Insomma, si tratta non solo di un esperto di comunicazione politica, ma anche di un personaggio che incarna molto bene le aspettative di quell’elettorato indipendente non stabilmente schierato dalla parte dell’attuale presidente, ma nemmeno pregiudizialmente a lui ostile, ed anzi incline a nutrire nei suoi confronti una pur cauta simpatia, o comunque ad auspicare, seppur in modo non acritico, che Obama lavori bene, perché in caso contrario ci rimetterà tutto il Paese.
Ebbene: McKinnon prende a pretesto l’articolo del L.A. Times per fare il punto sul fatto che una porzione ormai determinante di elettori si sta assestando sul versante dei “delusi”, nel senso che sta rivedendo la propria opinione/percezione di Obama, declassandolo da eroe del cambiamento a personaggio tristemente riconducibile agli schemi della solita “vecchia” politica, fatta di compromessi con i poteri forti, di accordi sottobanco, di promesse non mantenute. Come piccolo sintomo di questa tendenza, McKinnon segnala che nei sondaggi della Pew del settembre del 2008 (subito prima dell’elezione del nuovo presidente) e del febbraio del 2009 (subito dopo la sua entrata in carica), le parole “hope” (speranza) e “hopeful” (speranzoso, ma anche “che dà speranza”) erano tra le 10 più gettonate fra quelle che la gente diceva di associare ad Obama. Ad aprile dell’anno scorso erano scese al 15esimo posto. A gennaio di quest’anno “hopeful” era al n.34, dopo “comunista”, “arrogante” e “deludente” (se non altro, “intelligente” è sempre salda al primo posto in classifica).

“Qualche mese fa” scrive McKinnon “pensavo che per Obama le cose non potessero andar peggio. E invece sono peggiorate, e molto”. In effetti, lo sgonfiamento della “bolla” obamiana è ormai un dato di fatto. Già nel settembre dell’anno scorso si cominciarono a registrare (e analizzare) cali di popolarità tra i più repentini nella storia della Casa Bianca. Poi è venuto lo smacco delle elezioni suppletive in Massachusetts; seguito però dalla approvazione della riforma sanitaria, che ci si aspettava segnasse un punto di svolta e di “risalita” del tasso di popolarità del presidente. Non è stato così. Alla fine di maggio la rilevazione del tasso di popolarità del presidente ha registrato un nuovo record negativo nei sondaggi della Gallup (46%), così come il tasso di approvazione nella rilevazione Rasmussen (42%). Nessun presidente nella storia – ricorda McKinnon – è mai stato rieletto con un tasso di approvazione inferiore al 47%.

Certo, la rielezione dista ancora un paio d’anni e molte cose possono accadere da qui al 2012. Lo scorso settembre Stanley Fish notava sul New York Times che la forza residua di Obama risiedeva nel fatto di comparire come un gigante attorniato da nanetti, di fronte all'opposizione ma anche dentro la sua amministrazione e dentro al suo partito: "come il Giulio Cesare di Shakespeare, domina il panorama politico come un colosso"... ma solo per mancanza di antagonisti. Difficile dire quanto a lungo può ancora protrarsi questo tipo di vantaggio.

E intanto, le elezioni di medio termine sono ormai dietro l’angolo.

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