giovedì 24 dicembre 2009

MERRY XMAS


Buon Natale e felice 2010
a tutti i lettori di
JEFFERSON

Merry Xmas & a Happy 2010
to all
JEFFERSON's readers

mercoledì 16 dicembre 2009

UOMO DELL'ANNUS HORRIBILIS

L'anno scorso l'onore del mitico numero di TIME di metà dicembre dedicato alla "persona dell'anno" era ineluttabilmente toccato a Barack Obama, in quanto vincitore dell'elezione presidenziale. Il 44esimo presidente era in lizza anche quest'anno, ma alla fine ha dovuto accontentarsi del Nobel per la pace. la "persona dell'anno" 2009 di TIME è invece il presidente della Fed, Ben Bernanke (nominato da Bush nel 2006, e poi riconfermato da Obama fino al 2014 - Senato permettendo).
Qui la motivazione ufficiale: Bernanke (per i profani: si pronuncia /bərˈnænki/. Per i più profani: si pronuncia "bernanchi" ) come uomo-simbolo dell'operazione che, scegliendo a sangue freddo chi "salvare" con il denaro pubblico e chi invece abbandonare al fallimento, ha evitato che la crisi finanziaria degenerasse in un'Apocalisse. Insomma, sceglierlo come uomo dell'anno sarebbe un modo per ricordarci che quello che volge al termine è stato sì un anno di merda, ma poteva anche andare molto, molto peggio ("la storia è fatta non solo di ciò che è effettivamente accaduto, ma anche di ciò che non è accaduto").
Mah. Uno potrebbe obiettare che Bernanke è stato anche uno dei tanti addetti ai lavori a non aver previsto lo scoppio della bolla immobiliare. E che è stato uno dei controllori "distratti" rispetto all'operato di molte banche disastrosamente fallite dopo essere diventate too big to fail.
Questo recente ritratto di Paola Peduzzi sul Foglio racconta di come la questione sia in realtà un po' più complessa; e racconta di come la gestione della crisi da parte di Bernanke sia attualmente "sotto processo", il che fa pensare che il riconoscimento di TIME sia stato congegnato come un aiutino, una sorta di piccolo stimulus.
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UPDATE: SuperMario Seminerio fa presente che spesso essere nominato "Persona dell'anno" da TIME porta più che altro un po' sfiga. Paul Krugman mi sembra d'accordo.

martedì 8 dicembre 2009

THE QUIET PRESIDENT

Altro mio pezzo su Libertiamo.it:

Barack Obama cammina rilassato, solitario, pensoso, sulla superficie liscia di un immenso planisfero. Sotto l’immagine, un titolo volutamente non originale: “The Quiet American”.
La cover story dell’Economist del 26 novembre scorso è un editoriale non firmato, quindi attribuibile al direttore John Micklethwait, grande esperto di politica d’oltreoceano (cinque anni fa firmò, a quattro mani con Adrian Wooldridge, l’imprescindibile saggio sulla destra americana “The Right Nation”).
Questo presidente – si domanda il direttore – ce l’ha o no una strategia?
Ce l’ha un vero piano su come rimettere in ordine il mondo, oppure sta solo navigando a vista? Ce lo si comincia a domandare con impazienza, perché “un pragmatismo calmo e conciliante è benvenuto dopo l’impetuosa certezza morale di George Bush, ma implica anche dei rischi”.
Va bene ristabilire un po’ di umiltà e di cordialità nei confronti del resto del mondo, ma “il problema è che il presidente spesso sembra più gentile con gli antagonisti dell’America che con i suoi alleati”. Anzi, a proposito di alleati: quelli dell’Europa dell’Est “mentre i loro soldati muoiono in Afghanistan, trovano irritante essere chiamati soltanto “partner”, termine che Obama usa nei confronti di quasi chiunque”.
In definitiva, l’Economist si domanda se questo “multilateralismo tranquillo” di Obama, questa visione “in cui ogni nazione fa la sua piccola parte per il bene di tutti”, sottenda un piano concreto, o se invece non si tratti solo di un colossale bluff. Il presidente “ha ragione sul fatto che il potere americano è circoscritto. Ma l’Unione Europea non è in grado di contribuire alla mansione di gendarme del mondo. E Cina, India e Russia non ne hanno intenzione”.
Quindi l’America di Obama deve cavarsela da sola. E di fronte al nulla di fatto registrato su molti, troppi fronti nel primo anno di questa amministrazione, c’è di che cominciare a temere che non sia capace di farlo; e che il quarantaquattresimo inquilino della Casa Bianca “sia solo una versione presidenziale di Alden Pyle, l’idealista “Americano Tranquillo” di Graham Greene, che vuole cambiare il mondo ma sottovaluta quanto cattivo il mondo sia, e finisce per fargli del male”.

Fra gli addetti ai lavori, qualcuno avrà provato la sensazione di un déjà-vu.
Nel febbraio del 2003, alla vigilia dell’attacco americano in Iraq, Newsweek pubblicò un pezzo di Christopher Dickey, cronista esperto di spionaggio ed antiterrorismo, nel quale la stessa identica citazione veniva impiegata per argomentare una analisi molto critica della politica estera di George W. Bush. Anche in quel caso, infatti, il presidente veniva paragonato all’Alden Pyle di Greene, l’americano solo apparentemente tranquillo, in realtà pericolosamente incosciente perché “determinato a fare del bene non a dei singoli individui, ma ad una nazione, ad un continente al mondo”, e che quindi “rappresenta tutto ciò che gli europei temono degli Stati Uniti”. Newsweek paragonava Bush al personaggio di Greene per dire che era in buona fede ma pericoloso, perché segnato, come il protagonista del romanzo, da una “letale tensione tra grandi ideali ed ignoranza del pericolo”.
Anche per Obama, come allora per Bush, vedersi paragonare ad Alden Pyle è un modo sofisticato ma non blando di sentirsi dare dell’apprendista stregone, del dilettante allo sbaraglio reso imprudente dall’eccessiva considerazione di sé e del proprio ruolo. A Bush toccò per via del suo interventismo missionario e del suo decisionismo texano; il suo successore, paradossalmente, ci sta arrivando seguendo il percorso diametralmente opposto – quello della trattativa ad oltranza, del multilateralismo relativista e cedevole, di una realpolitik tutta tattica e niente strategia. In questo senso, anche lui comincia ad essere accusato di essere un “Americano Tranquillo”.
Quel libro, che Greene scrisse nel 1954 ambientandolo nella Saigon dell’epoca - in cui aveva vissuto come corrispondente di LIFE, del Sunday Times e del Figaro - è spesso considerato una sorta di profezia del fallimento americano in Vietnam.
I protagonisti sono in realtà due, profondamente antagonisti (anche perché si contendono la stessa donna): da un lato Tom Fowler, voce narrante ed alter ego dell’autore, anziano ed indolente reporter inglese che ad assiste con cinico distacco alla decolonizzazione dell’Indocina; dall’altro il giovane idealista Pyle, zelante diplomatico americano, borghese bostoniano, fresco di laurea ad Harvard (come Bush e come Obama), ufficialmente in forza alla Missione Americana di Aiuto Economico.
La tranquillità di quest’ultimo si rivelerà solo apparente, non quanto agli ideali che lo animano, bensì quanto ai mezzi che è deciso ad impiegare: lo si scoprirà essere un agente della CIA, inviato ad armare segretamente una fazione vietnamita ritenuta ben controllabile, nel tentativo di portare all’instaurazione di un regime filooccidentale prima che la disfatta francese lasci il campo libero ai comunisti (oggi lo scenario pare quasi banale, ma all’epoca gli americani avevano ufficialmente a che fare con la Corea, non con il Vietnam. E la CIA, che era stata creata da appena otto anni, aveva intrapreso, con successo, solo due operazioni clandestine: il colpo di stato che aveva installato al potere lo Scià in Iran, e quello che aveva portato il colonnello Armas al potere in Guatemala). Alla fine, l’inesperienza di Pyle e la sua tendenza a sopravvalutare le proprie capacità di gestire gli eventi si rivelano fatali: l’operazione sfugge di mano, e l’esplosivo al plastico da lui fornito massacra degli innocenti.
Quando il libro uscì– in piena Guerra Fredda – l’antiamericanismo di cui è intriso lo rese poco gradito negli USA. Recuperò popolarità quando, tre anni dopo, tenendo conto del contesto “maccartista”, Hollywood ne sfornò una trasposizione cinematografica edulcorata, con la regia di Joe Mankiewiez (reduce dal successo di “Bulli e pupe”, con Marlon Brando e Frank Sinatra), nella quale il finale era totalmente stravolto e l’americano Pyle era scagionato da quasi tutte le colpe attribuitegli dalla trama originale. Nel 2002 è uscito un remake molto più fedele al romanzo, diretto dall’australiano Philip Noyce, con Brendan Fraser nel ruolo di Pyle ed un perfetto Michael Caine nei panni di Fowler.
Anche stavolta raccontare di un attentato finanziato dagli USA non era granché in sintonia con il comune sentire del momento, sicché l’uscita del film venne ritardata per quasi un anno, e persino il liberal New Yorker, nel recensirlo, avvertì l’esigenza di mettere in guardia il lettore dall’errore di “fare paragoni affrettati tra un’America guidata dalla paura di instabilità in terre lontane e un’America che sta reagendo ad atrocità commesse sul suo suolo“.
Il fatto è che “The Quiet American” è un testo la cui energia pulsante è costituita non da un generico antiamericanismo, ma dalla specifica versione tipicamente inglese, pura supponenza da nobile decaduto nei confronti dei parvenu yankee: una recensione di TIME negli anni Cinquanta diagnosticò un “complesso di inferiorità britannico, quel misto di rabbia ed autocompatimento con il quale il vecchio gallo osserva quello giovane aggirarsi nel pollaio”.
Ciò portò Greene – che fu egli stesso uomo dei servizi segreti britannici, pur senza rinunciare al suo atteggiamento anti-militante (pare chiamasse l’MI6 «la migliore agenzia di viaggi del mondo») – ad utilizzare nel modo più caustico, addirittura contribuendo in qualche misura a definirlo, lo stereotipo dell’americano “naif”, convinto di aver capito tutto, di saper organizzare e cambiare tutto, e soprattutto di rappresentare il Bene (“Dio ci salvi dall’innocente e dal buono”).

In questo cliché gli intellettuali giocano un ruolo essenziale: Greene coniò ad hoc la figura di “York Harding”, fantomatico opinionista teorico del ruolo di “terza forza” democratizzatrice e modernizzatrice che l’America è chiamata a svolgere per salvare il Terzo Mondo sia dal vecchio colonialismo europeo che dalla dittatura comunista. Alden Pyle è quel che è soprattutto perché animato dalla lettura di queste teorie (in particolare da un libro di Harding dal titolo “The Rise of the West”, “Il ruolo dell’Occidente”, che porta fieramente sottobraccio mentre si aggira per le vie di Saigon con il cane al guinzaglio).
Anche per questo riuscì facile il parallelo con Bush, che, seppure non particolarmente colto, appariva segnato in modo determinante dal rapporto con i “suoi” York Harding: Bob Kagan, Bill Kristol, David Frum e via neoconservando.
Obama sotto questo profilo corrisponde molto meno al personaggio, è troppo pragmatico, troppo poco ideologizzato: certo, ha i suoi intellettuali di riferimento (da Fareed Zakaria a Thomas Frideman, e mettiamoci pure Joseph Nye), ma nessuno di questi sembra averlo stregato più di tanto.
Si potrebbe semmai strologare sul ruolo del suo esercito di consulenti e consiglieri, ma a questo l’Economist non si spinge.
Eppure anche nel suo caso il parallelo con il giovane cinico ma benintenzionato di Greene, che aveva fatto “dell’amicizia una professione, come fosse legge o medicina”, potrebbe reggere. L’Economist – che non è sospettabile di ostilità preconcette nei confronti del quarantaquattresimo presidente, avendogli dato il suo endorsement alla vigilia delle elezioni con un editoriale che esortava l’America a “fare di Obama il prossimo leader del mondo libero” - tiene a precisare che il giudizio è prematuro, c’è ancora molto tempo per potersi ricredere con sincero sollievo.
Ma è un fatto che ad oggi il bilancio è disastroso.
La decisione sul surge in Afghanistan arriva con tragico ritardo e senza adeguate spiegazioni. La posizione della Casa Bianca alla conferenza di Copenhagen sul clima sembra disperata senza un appoggio netto del Congresso. Il vertice in Cina si è concluso senza uno straccio di risultato, nonostante le riverenze al regime di Pechino e il rifiuto di incontrare il Dalai Lama; Leslie Gelb, ex presidente del Council on Foreign Relations, ha scritto sul sito “The Daily Beast” che nella sua missione in Asia il presidente ha dato “una sgradevole sensazione di dilettantismo nel gestire la potenza americana”, e che dovrebbe assumersene la responsabilità “come John Kennedy fece con la Baia dei Porci”. L’appoggio della Russia sulle sanzioni all’Iran non si vede all’orizzonte nonostante sia stato immolato il piano di scudo stellare a difesa dell’Europa orientale. Il Pakistan sta incassando i finanziamenti di Washington senza dare granché in cambio.
Venerdì scorso Peggy Noonan ha scritto sul Washington Post che il primo anno di un nuovo presidente è quello nel corso del quale si formano le impressioni indelebili su di lui, e vengono scattate le fotografie destinate a rappresentarne l’icona. Eletto oltre un anno fa con aspettative smisurate, al governo da dieci mesi, troppe volte Barack Obama è stato fotografato nell’atto di inchinarsi di fronte a monarchi e tiranni. Sarà forse in grado, nelle prossime settimane, di dimostrare di non aver nulla in comune con l’Americano Tranquillo di Greene; per ora, sta facendo dormire sonni sempre meno tranquilli agli americani, e non solo.

mercoledì 25 novembre 2009

UN TACCHINO CHIAMATO CORAGGIO


Non sempre la Tradizione è una cosa seria.
Esempio: una tradizione un po' scema , che alcuni vorrebbero far risalire ad Harry Truman ed altri addirittura a Lincoln (non a caso rispettivamente l' "istituzionalizzatore" e l'inventore della festa nazionale del "Ringraziamento"), vede il Presidente degli Stati Uniti "impegnato" in una sorta di "concessione della grazia" al mitico tacchino, con tanto di cerimonia ufficiale (formalmente istituita da George Bush padre esattamente 20 anni fa) detta National Thanksgiving Turkey Presentation .
Ieri Barack Obama (senza prendersi sul serio, come si conviene ad una persona sana di mente in un simile contesto) ne ha "graziato" uno che - dettaglio irresistibile - si chiama Courage (Coraggio).
Nome che potrebbe sembrarvi poco calzante per un tacchino; ma in realtà, quando i Padri Fondatori si arrovellarono per scegliere un uccello come simbolo nazionale, Benjamin Franklyn si oppose all'opzione (che poi prevalse) dell'aquila, in quanto animale rapace associabile a comportamenti immorali, e sostenne l'alternativa del tacchino, proprio con la motivazione che si tratta di un uccello "goffo, ma dotato di coraggio" (se la sua tesi avesse prevalso, forse oggi il blasone presidenziale sarebbe più o meno come quello che vedete qui sopra).
Il fortunato graziato, stando alla tradizione, è stato mandato in vacanza premio a Disneyland (giuro che è vero).
E quindi la battutina del giorno è : "ci sono giorni che mi fanno ricordare perché decisi di candidarmi a questa carica; e ci sono momenti come questo, in cui do la grazia a un tacchino e lo mando a Disneyland".
Ci vuole coraggio.

martedì 24 novembre 2009

MR. NOBEL GOES TO CHINA


Oggi mio pezzo su Libertiamo.it:

Si dice che il primo viaggio di Barack Obama in Cina ha gettato le basi del cosiddetto “G2”, la nuova spartizione bipolare del mondo. I cinesi pare non siano d’accordo, ma tant’è.
Ad ogni modo, com’è andata la tanto attesa missione?

Chiedetelo a Federico Rampini:

“I giudizi sono impietosi. ‘La Cina è stata irremovibile – osserva il New York Times – Obama ha scoperto una superpotenza in ascesa che è ben decisa a dire no agli Stati Uniti’. Ancora più duro il Washington Post: ‘Obama torna dalla Cina senza risultati sui dossier importanti, dal nucleare iraniano alla rivalutazione del renminbi. E’ poco per un presidente che fece campagna elettorale promettendo grandi cambiamenti nella diplomazia. L’unica cosa che è cambiata è il tono conciliante degli Stati Uniti. Obama ha concesso molto ai suoi interlocutori. […] Pechino, a differenza dei suoi predecessori, per non irritare i padroni di casa Obama non ha cercato di incontrare qualche dissidente perseguitato. Non ha fatto il gesto di andare a messa, che George Bush fece per sollevare il tema della libertà religiosa. La Casa Bianca stavolta non ha ottenuto neppure la diretta televisiva per il dialogo tra Obama e gli studenti di Shanghai. Ha dato fin troppo e in cambio di cosa? si chiedono in America”…

Oppure, se volete il parere di uno degli esperti italiani in materia meno smaniosi di assistere a una “linea dura” di Washington nei confronti di Pechino, chiedetelo a Francesco Sisci:

“Il problema dei diritti umani, la difesa di Taiwan, la stessa spinosa questione del Tibet dopo decenni di convivenza difficoltosa con il realismo politico sono tutte state spazzate sotto il tappeto […] I giornalisti americani fingono di scandalizzarsi, quelli cinesi sono compiaciuti. In realtà è tutto un teatrino. L’accordo tra le parti c’era da tempo ed era che le questioni dei diritti e dei valori, che hanno rallentato e reso difficile per anni il rapporto tra Usa e Cina, sarebbero state messe in disparte […] Oggi quindi l’apertura di Obama alla Cina lascia gli apostoli nostrani dei diritti umani con il cerino in mano, isolati sui principi e sulla politica sostanziale, mentre questo nuovo G2, o comunque lo si voglia chiamare, comincia a veleggiare”.

Le ragioni di questa resa alla realpolitik le conosciamo sin troppo bene. La Cina è il primo sottoscrittore al mondo di buoni del tesoro USA, o, altrimenti detto, il principale creditore dell’America, ed il principale finanziatore del suo debito pubblico. Per fare una media, è un po’ come se nel primo decennio del nuovo millennio ogni cittadino degli Stati Uniti avesse preso in prestito 4.000 dollari da un cittadino cinese. Più concretamente, lasciando da parte le astrazioni statistiche da “pollo di Trilussa”, la Cina ha finanziato i salvataggi di certe grandi banche americane (e gli aiuti governativi a certe grandi industrie). Volendo, quindi, Pechino potrebbe far crollare in poche ore i mercati americani; si tratterebbe però di un “omicidio-suicidio”, poiché gli americani – più per recessione che per ritorsione – chiuderebbero in buona misura alla Cina le porte del suo principale sbocco di esportazione, trascinandola nella catastrofe.
Qualche anno fa - lo ha recentemente ricordato l’Economist – il preside di Harvard Larry Summers, già ministro del tesoro ai tempi dell’amministrazione Clinton ed oggi principale consulente economico dell’amministrazione Obama, definì questa situazione come “equilibrio del terrore finanziario”, mutuando il celebre concetto di reciproca deterrenza in base al quale, in ragione del reciproco puntamento dei missili nucleari intercontinentali, si evitò a lungo che la Guerra Fredda degenerasse in “calda” (ma anche che si sbloccasse in un senso o nell’altro).

In realtà, l’impressione è che ci si avvii verso qualcosa di peggio dell’ “equilibrio del terrore” che vigeva durante la Guerra Fredda, perché, se è vero che a quell’epoca l’obiettivo era la sopravvivenza e non la vittoria, è pur sempre vero che quell’obiettivo lo si perseguiva cercando almeno di “contenere” la controparte. Oggi invece, sia con le parole che con i fatti, l’America di Obama appare intenzionata a non “contenere” alcunché.
Si va quindi verso un “disequilibrio del terrore”?

È vero che la linea “troppo aggressiva” e “troppo poco realista” di George W. Bush (il quale quando si recò in Cina l’ultima volta, nel 2005, fece precedere il viaggio da un ennesimo incontro con il Dalai Lama alla Casa Bianca, e per di più fece prima tappa in Giappone dove tenne uno dei suoi discorsi tutti “freedom” e “democracy” invitando addirittura – somma provocazione – a prendere esempio da Taiwan) non ha prodotto, a quel che sembra, grandi risultati, nemmeno in termini di mero contenimento.

Peccato che ora il realismo del pragmatico Obama - che con tutto il garbo, l’umiltà e la prudenza di questo mondo, e con il conforto del consueto super-staff di consulenti, è andato ad ostentare concordia con questo signore qui inaugurando una nuova linea di appeasement, peraltro ampiamente anticipata lo scorso febbraio dal viaggio in Cina del neo-Segretario di Stato Hillary Clinton, che ha deluso amaramente le aspettative di chi si era lasciato sedurre dalle suggestioni della campagna elettorale - non sembri affatto dare migliori risultati.
Non è stato raggiunto nessun risultato apprezzabile né sui dossier prioritari come l’economia, il clima, il nucleare iraniano e quello nordcoreano, né su altri fronti molto importanti come il sostegno americano a Taiwan, o la situazione in Birmania, o quella in Sudan (qualcuno per caso ancora ricorda quel problemino?…).

Non parliamo, poi, della questione tibetana, sulla quale Obama si è limitato ad un laconico e malinconico “invito a dialogare con il Dalai Lama” (che lui non ha osato incontrare prima di questo viaggio, per non dispiacere lorsignori), e questo dopo aver incassato il pernacchione del governo di Pechino, che alla vigilia del suo arrivo lo ha sfrontatamente sfottuto davanti al mondo gettandogli in faccia un grottesco parallelo tra l’autonomismo tibetano di oggi e il secessionismo dei confederati nella Guerra Civile americana, invitando sardonicamente il presidente afroamericano a mandare a spasso il Dalai Lama in ossequio alla sua ammirazione per Abraham Lincoln…

Presumiamo pure che questa linea ultraremissiva sia da leggere in ottica tattica: un temporeggiare con basso profilo in attesa di recuperare energie e rialzare la testa quando ce lo si potrà permettere.Resta però da capire se potrà funzionare, e se i danni collaterali che essa sta già producendo saranno o no reversibili.

domenica 8 novembre 2009

REAGAN E LA CONQUISTA DI BERLINO


Mio pezzo su Libero di oggi.

Quella che segue è una versione leggermente più ampia (quella originale, non sacrificata dalle dimensioni del cartaceo che pure la redazione ha generosamente forzato). La regalo ai lettori di JEFFERSON:

«I testicoli dell’Occidente»: così Nikita Krushev definì Berlino nel 1956. Nel senso che, si vantò, «ogni volta che voglio far urlare l’Occidente, gli do una strizzatina». Era vero, e lo fu fino al 12 giugno del 1987, quando Ronald Reagan tenne un comizio davanti alla Porta di Brandeburgo.
L’autore di quello storico discorso fu uno speechwriter appena trentenne: Peter Robinson, un neolaureato e neoassunto alla Casa Bianca, che si era fatto le ossa alla National Review, la prestigiosa rivista conservatrice diretta da William E. Buckley. Nell’aprile 1987, Robinson si aggregò alla missione dei Servizi Segreti addetta a preparare l’imminente viaggio del presidente in Europa.
Ne approfittò per parlare con la gente, per carpire il sentire comune. Incontrò anche John Kornblum, il più alto funzionario americano a Berlino; il quale gli consigliò di tenersi alla larga dall’argomento del Muro. Robinson era determinato a fare l’esatto contrario.
Tornato a Washington, buttò giù la prima bozza del discorso, che conteneva questo passaggio: «Segretario Generale Gorbaciov, se davvero vuole la pace, venga a Berlino. Se davvero vuole il benessere dell’Unione Sovietica e dell’Europa orientale, venga a Berlino. Venga qui davanti a questo muro. Herr Gorbaciov, machen Sie dieses Tor auf». La frase finale in tedesco sarebbe stata poi sostituita con la traduzione, «apra questo cancello»; quella più celebre sull’abbattimento del Muro sarebbe stata aggiunta in una versione di poco successiva. In quel passaggio il giovane Robinson aveva colto l’essenza della politica estera reaganiana, basata sulla ottimistica ed ostinata convinzione che la Guerra Fredda non fosse destinata a durare in eterno, e che spettasse agli Usa chiudere quel capitolo a modo loro.

Nel preparare la sua candidatura alle primarie presidenziali repubblicane del 1979, l’allora ex governatore della California aveva spiegato ai suoi consulenti che la sua visione della gestione del rapporto con i sovietici era "semplice, qualcuno direbbe semplicistica: noi vinciamo e loro perdono".
Bisognava però vincere senza guerreggiare. Negli anni Cinquanta si era passati dalla bomba a fissione a quella a fusione, la cui potenza (sperimentata dagli americani con l’annientamento dell’atollo di Bikini nel marzo del ’54) era settecentocinquanta volte superiore a quella dell’ordigno sganciato su Hiroshima. E questo aveva sgombrato il campo da qualsiasi ipotesi di guerra “calda” che potesse concludersi con qualcosa che non fosse la “fine di mondo” del Dottor Stranamore.
Reagan durante il suo primo mandato agì da falco. Raddoppiò il budget del Pentagono costringendo il Cremlino ad una rincorsa economicamente e tecnologicamente insostenibile. Soprattutto, si mostrò intenzionato a por fine all’“equilibrio del terrore”, la garanzia reciproca di non belligeranza fondata sul deterrente dell’olocausto nucleare. Un paradosso che Reagan aveva sbeffeggiato con la metafora di due pistoleri «uno di fronte all’altro in un saloon, che si puntano reciprocamente la pistola alla testa... per sempre». La sua risposta fu lo “scudo stellare”. Una volta chiarito chi fra i due contendenti stava giocando in attacco, Reagan iniziò a negoziare. Nel vertice di Reykjavik, nell’ottobre 1986, Gorbaciov aveva chiesto che gli Usa abbandonassero qualunque sviluppo dello “scudo stellare” non limitato alla ricerca di laboratorio. Reagan aveva invece proposto di negoziare un taglio dei missili a gittata intermedia. Nessuno dei due si era schiodato dalle rispettive posizioni e il summit si era concluso con un nulla di fatto. Ma ci erano andati vicini. Si sarebbero dovuti incontrare per la terza volta a Washington a dicembre.

Nel giugno 1987 il presidente avrebbe fatto il suo ultimo viaggio ufficiale in Europa. L’ultima tappa era Berlino. Gorbaciov, che quell’anno aveva pubblicato il libro Perestroika e stava rubando all’anziano presidente americano la parte in commedia di “uomo del cambiamento”, non era tipo da dare “strizzate” in stile krushioviano; ma nemmeno da Reagan si attendevano gesti particolarmente aggressivi. Reagan comprese, invece, che in quel momento l’esigenza principale era quella di mostrare che il Mondo Libero aveva ancora un leader ben intenzionato a vincere, capace all’occorrenza di tirare fuori la sua grinta da cowboy.
E infatti, appena lesse la bozza del discorso di Robinson, gli piacque. Non piacque invece nemmeno un po’ al Dipartimento di Stato, il quale condusse una campagna intensiva per boicottarlo; poi, quando fu chiaro che Reagan voleva “quel” discorso, i funzionari del National Security Council tentarono una “revisione” finale che cancellava l’intero paragrafo sull’abbattimento del muro. Ma l’ultima parola spettava al presidente, che decise di ripristinare quel passaggio: «C’è un solo gesto che i sovietici possono fare che sarebbe inequivocabile, che farebbe avanzare drammaticamente la causa della libertà e della pace. Segretario Generale Gorbaciov, se davvero vuole la pace… apra questo cancello! Mr. Gorbaciov... Mr Gorbaciov…Tiri giù questo muro».

«La reazione di Mosca fu inaspettatamente blanda», ha scritto John Lewis Gaddis, autorevole storico della Guerra Fredda. “Malgrado la sfida al simbolo più vistoso dell'autorità sovietica in Europa, la programmazione per il vertice di Washington proseguì regolarmente”. A dicembre, Reagan e Gorbaciov firmarono un trattato che prevedeva lo smantellamento dei missili nucleari a gittata intermedia in Europa. Il discorso di Berlino parve essere stato più che altro inoffensivo. Ma quando di lì a due anni il Muro crollò, le immagini di quel proclama di Reagan vennero mandate in onda a ripetizione.

Due saggi appena usciti , The Rebellion of Ronald Reagan – a History of the End of the Cold War”, del corrispondente del Los Angeles Times James Mann (lo stesso che cinque anni fa si fece notare con “The rise of the Vulcans”, una monografia sull’entourage di George W. Bush), e “Tear Down This Wall: A City, a President, and the Speech that Ended the Cold War”, del redattore di TIME Romesh Ratnesar (intervistato nel video qui sopra), ricostruiscono accuratamente quell'evento. In particolare il primo, quello di James Mann, racconta di come Reagan si ribellò alla realpolitik del Dipartimento di Stato, del National Security Council e di certi ambienti conservatori.

Ma in realtà la sua ribellione si rivolgeva all’intero establishment occidentale. A settembre, il Times ha pescato tra i documenti sovietici desecretati dopo la fine della Guerra Fredda la trascrizione di un incontro riservato tra Margaret Thatcher e Michail Gorbaciov il 23 settembre del 1989 .
Stando alla carta, la Lady di ferro disse a Gorbaciov che l’Occidente non voleva che il Muro crollasse: «La riunificazione della Germania non è nell’interesse della Gran Bretagna, né dell’Europa Occidentale. Potrebbe sembrare il contrario dalle dichiarazioni pubbliche, o dai comunicati che vengono diramati nei vertici della Nato; ma non è il caso di prendere sul serio quelle affermazioni. In realtà noi non vogliamo un Germania unita. Ci porterebbe a modificare i confini del dopoguerra, e noi non ce lo possiamo permettere, perché minerebbe la stabilità dell’intero scenario internazionale mettendo a repentaglio la nostra sicurezza».

Ventidue anni dopo Barack Obama, benché invitato, non sarà a Berlino per prendere parte alle celebrazioni per il ventennale della caduta del Muro. Pare sia troppo impegnato nei preparativi del suo viaggio in Cina, il nuovo antagonista da “contenere”.

PS - Day-After Update: Sul Wall Street Journal di oggi, Tony Dolan, l'allora capo di Robinson, ricorda alcuni succulenti dettagli di quella "lotta all'ultimo sangue per mantenere nel testo del discorso quelle quattro semplici parole: tiri-giù-quel-muro".

martedì 27 ottobre 2009

LA GUERRA DEI DRONI

Mio pezzo su L'Occidentale di oggi:

“Top Gun”: chi è stato giovane negli anni Ottanta ricorda inevitabilmente con un certo affetto quel puerile ma irresistibile cult-movie, in cui Tony Scott romanzava come in un fumetto le spericolate gesta dei piloti militari della californiana United States Navy Fighter Weapons School (meglio nota come Top Gun, per l’appunto). Quella scuola è realmente esistita: era il più importante dei Replacement Air Group, i centri di perfezionamento creati dal Pentagono nei primi anni Settanta, alla luce delle disavventure del Vietnam, in cui i piloti più esperti addestravano i novellini.

Oggi quel film, che nel 1986 fece la fortuna di Tom Cruise, si avvia a divenire una sorta di documento di un’era passata. La base “Top Gun”, che negli anni Novanta è stata trasferita dalla California nel vicino Nevada, si sta trasformando in qualcosa di molto diverso da quello che Hollywood mostrò al mondo un quarto di secolo fa. L’aviazione e la marina stanno investendo sempre più nell’impiego dei cosiddetti droni, gli aerei da guerra senza esseri umani a bordo, pilotati via satellite da terra.
Ovvio: se si vuole mettere il meno possibile a repentaglio la incolumità di un pilota, farlo addestrare da veterani sopravvissuti all’esperienza del combattimento reale è utile, ma tenerlo al sicuro a terra, davanti ad un computer con in mano un joystick, magari dall’altra parte del mondo rispetto alla zona bombardata, è infinitamente meglio.

Ma la sicurezza del pilota non è tutto. Secondo i fautori di questo nuovo sistema, l’impiego dei droni porta anche a ridurre il numero di vittime civili, poiché, a differenza del tradizionale caccia che doveva bombardare con “toccata e fuga” per sottrarre il prima possibile il pilota ai colpi dell’artiglieria contraerea, il drone può permettersi di volare sopra il bersaglio per prendere bene la mira con tutta calma, per ore e ore, anche per un’intera giornata. Questo argomento non convince i sostenitori della cosiddetta counterinsurgency, ossia la tecnica adottata dal generale David Petraeus con il surge che nel 2007 ha recuperato l’Iraq dall’orlo dell’abisso, e che attualmente il generale Stanley McChristal vorrebbe tentare anche in Afghanistan. Costoro sostengono che nel combattere guerre asimmetriche, cioè nell’usare un esercito regolare contro terroristi e guerriglieri, è decisivo porre la popolazione civile sotto la protezione delle proprie truppe, anziché renderla vittima accidentale delle proprie bombe, poiché nel primo caso è incoraggiata a divenire preziosa alleata, e nel secondo caso è di fatto spinta ad appoggiare il nemico. Ovviamente secondo questa visione è bene puntare il più possibile sulle truppe di terra, e il meno possibile sui bombardamenti aerei, droni o non droni.
Ma i bombardamenti con i droni hanno finalmente decapitato i vertici di Al Qaeda, per cui a Washington vengono visti sempre più come una soluzione vincente, oltre che poco rischiosa. E tanto basta per investirvi sempre più risorse. Inizialmente, a pilotare i droni erano i normali piloti di caccia, dislocati solo temporaneamente nella base in Nevada; di recente, però, si è passati a destinare là stabilmente i piloti migliori. Lo scorso 25 settembre sono entrati in servizio i primi otto piloti addestrati esclusivamente per questa speciale mansione: ”un nuovo tipo di Top Gun per un nuovo tipo di guerra”, come titolava il mese scorso un reportage di TIME.
Il Colonnello Eric Mathewson, che dirige la scuola di addestramento, intervistato giusto ieri sulla rivista delle forze armate “Stars and Stripes” proclamava orgoglioso: “siamo alle prese con una transizione culturale, paragonabile a quella dalla cavalleria ai carri armati”. Solo che in questa occasione si tratta di rinunciare all’ebbrezza del volo, per cui nessuno si offre volontario. E così, d’ora innanzi, ogni anno il Pentagono pescherà d’autorità cento tra le reclute più meritevoli dalle ordinarie accademie dell’aviazione, e le dirotterà, loro malgrado, in questo corso per piloti virtuali.

Il punto più delicato di questa storia è che il programma di guerra aerea con i droni ha un suo “lato oscuro”, una sua spregiudicata diramazione non ufficiale: così come negli anni Sessanta il Pentagono conduceva ufficialmente la guerra in Vietnam, e la CIA guerreggiava “ufficiosamente” nei cieli del Laos con l’operazione segreta “Air America”, così oggi, all’operazione ufficiale gestita dal Pentagono nei cieli dell’Afghanistan e dell’Iraq, si affianca, da un paio d’anni, una operazione “coperta”, anche stavolta gestita dalla CIA, in Pakistan, quindi anche in questo caso in un paese con il quale gli USA non sono ufficialmente in guerra (nonostante sia lì che si annida l’epicentro dei guai della regione).

A dire il vero parlare di operazione coperta è quasi ridicolo: Henry Crumpton, un ex dirigente dell’Agenzia, l’ha recentemente definita “uno dei segreti meno segreti della CIA”. Notizie abbastanza precise trapelano infatti da molti mesi sui grandi media; anche se solo nelle ultime settimane la stampa sta adeguatamente approfondendo l’argomento.

La settimana scorsa, la giornalista del New Yorker Jane Mayer, una che negli ultimi anni si è fatta notare con inchieste molto critiche sui metodi usati dalla CIA nell’antiterrorismo, ha pubblicato la più approfondita ed accurata analisi sino ad oggi condotta su questa questione. L’articolo del New Yorker sta facendo molto discutere (in Italia nel ha parlato Christian Rocca sul Foglio, giovedì scorso), perché riferisce fatti non banali. In sintesi: in dieci mesi di amministrazione Obama, gli Stati Uniti hanno bombardato il Pakistan più volte di quanto lo avevano fatto negli ultimi tre anni dell’amministrazione Bush.
I primi due bombardamenti Obama li autorizzò appena tre giorni dopo essersi insediato alla Casa Bianca. Ai primi di giugno ne aveva ordinati sedici, quindi mediamente circa uno alla settimana. Sotto Bush, i bombardamenti sul Pakistan erano stati tre nel 2007, e trentaquattro nel 2008. Sotto Obama sono stati una trentina nel primo semestre del 2009, e ad oggi ammontano a quarantuno. Secondo un recente ed accuratissimo studio della New America Foundation, sarebbero state uccise più di seicento persone, e circa un terzo di esse sarebbero civili innocenti.

Dati sorprendenti per molti (anche per la stessa Mayer) solo perché in questi mesi i giornalisti hanno preferito continuare a fissare il “santino” elettorale del 44esimo presidente piuttosto che la realtà dei fatti. Ma in realtà c’è poco da stupirsi.
Il primo agosto del 2007, quando il bombardamento del Pakistan con i droni era ancora solo uno studio segretamente commissionato alla CIA dall’amministrazione Bush, l’aspirante candidato democratico Barack Obama, con lo stesso discorso programmatico con il quale puntò maldestramente tutto sulla inopportunità del surge e sul ritiro immediato dall’Iraq, precisò che lo sforzo militare andava invece intensificato sull’Afghanistan e sul Pakistan.
Quest’ultima precisazione fece sobbalzare tutti sulle sedie: il Pakistan è un paese alleato, non nemico. Eppure, in pratica, Obama dichiarava pubblicamente la propria intenzione, qualora eletto presidente, di colpire anche lì pur di uccidere i terroristi di Al-Qaeda.

Quella sortita venne immediatamente esecrata, non senza una certa dose di ipocrisia, da tutti gli altri contendenti alla nomination democratica, Hillary Clinton in testa; ma Obama non rinnegò mai nulla, ed anzi, una volta ottenuta la candidatura, nei testa a testa televisivi con il candidato repubblicano John McCain nell’autunno del 2008 rivendicò quella sua posizione come prova della sua intenzione di dare una svolta rispetto all’era Bush: fino ad ora, spiegò, i terroristi hanno avuto dei rifugi sicuri in Pakistan, “ma questa storia cambierà quando sarò io il presidente”. Una geniale bugia, poiché in realtà a quell’epoca l’amministrazione Bush stava già bombardando i “rifugi sicuri” dei terroristi in Pakistan… ma i repubblicani erano impossibilitati a rivendicarlo, trattandosi di operazione “segreta” e di dubbia legalità. Obama non ha fatto altro che intensificare l’operazione.

Ad ogni modo, bushiani od obamiani che siano, questi bombardamenti di nuova generazione sono una tattica, non una strategia.
Il che non può essere una critica nei confronti della CIA, alla quale adiopiacendo non compete elaborare strategie. Quello, semmai, è il mestiere del presidente.
I droni sono uno strumento come un altro per fare la guerra: consentono di farla in circostanze in cui in passato sarebbe stato impossibile o troppo rischioso, ma non risolvono né consentono di eludere nessuno dei quesiti di fondo che ancora attendono risposta per poter definire quale sia, in sostanza, la “Dottrina Obama”. In quali casi si interviene con la forza, e in quali no? E con quali alleati? E soprattutto, con quali fini? Antiterrorismo o promozione della democrazia? Interesse nazionale o diritti umani universali? Egemonia o sopravvivenza?
E questo è, forse, il punto cruciale: ancora una volta, l’attuale presidenza appare incentrata sulla tattica, ma priva di una vera strategia. Naviga a vista. A lungo andare, può costarle molto caro.

lunedì 19 ottobre 2009

“OBAMA E’ COME BUSH”. CHI L’HA DETTO?


Ovvio: Christian Rocca, infinite volte nella ormai celebre (e da molti esecrata) rubrica “that’s right”, diranno i miei quattro lettori.
Ma il Corrispondente del Foglio, si sa, è un bushiano mai pentito.
Difficile, però, fare spallucce quando la stessa osservazione appare a lettere cubitali sull’ultima edizione di Newsweek, il più obamiano tra i grandi e prestigiosi settimanali in lingua inglese, e per di più a firma del direttore Jon Meacham, cronista specializzato in biografie, recentemente insignito del premio Pulitzer.
Meacham rivendica una certa competenza in bushologia in quanto attualmente impegnato nella stesura di una biografia di Bush padre, coglie il pretesto dell’apparizione pubblica di venerdì scorso di quest’ultimo in coppia con l’attuale presidente, per esporre le seguenti considerazioni: non è vero che la politica di Obama assomiglia semmai a quella di Bush Padre, noto realista; è vero semmai che Obama somiglia a Bush Padre nel senso che come lui è un politico “caratterialmente incompatibile con ogni forma di estremismo”, quindi un moderato per natura; ciò posto, in molte sue recenti scelte, da quelle su Guantanamo a quelle sui “salvataggi” con i sussidi statali dopo la crisi economica, a quelle sui metodi nella lotta al terrorismo, “Barack Obama è molto più simile a George W Bush (o almeno a quello degli ultimi anni) di quanto chiunque sia coinvolto – inclusi, presumo, lo stesso Obama e lo stesso Bush – sarebbe disposto ad ammettere”.
In senso non spregiativo, beninteso (come invece accade quasi sempre nelle citazioni collezionate da Camillo): il comune denominatore della strana coppia sarebbe la tendenza a governare “come Presidenti con la P maiuscola, non come politici di parte”.

Complimenti per la originalità della provocazione.
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PM UPDATE: Ovviamente (lo rilevo successivamente alla pubblicazione di questo post) quest'oggi a Camillo non è parso vero poter usare l'editoriale di Meacham per la famigerata rubrica "that's right".

martedì 13 ottobre 2009

BUM! NON ATTACCA

Riassunto delle puntate precedenti:

- ai primi di marzo, il NYT rivelò che a febbraio, appena insediato, Obama aveva scritto al premier russo Medvedev una letterina "segreta” con la quale offriva l’abbandono del piano americano (bushiano) di "scudo spaziale" antimissile da installare nell’Europa dell’Est (Rep. Ceca e Polonia), in cambio di una (efficace collaborazione dei russi nell'ottenere una) rinuncia da parte dell’Iran alla imminente dotazione di ordigni nucleari e di missili balistici (qui i dettagli);

- a settembre, l'amministrazione Obama annunciò di aver decretato l'abbandono del piano di scudo antimissile, apparentemente senza contropartita, per ragioni poco più che tecniche. Ovviamente, il pensiero serpeggiato a destra e a manca è stato subito quello di un "affare fatto", inconfessabile ma evidente, tra Mosca e Washington;

- appena una settimana più tardi, Medvedev ha manifestato un certo inedito possibilismo nel collaborare a sanzionare Teheran. Michael McFaul, responsabile per le relazioni con la Russia e l'Eurasia nel National Security Council (in parole povere: l'uomo nelle cui mani Obama ha messo il dossier Russia) ha parlato di un "importante mutamento di posizione" e di un "nuovo clima". E tutti hanno pensato: ecco, il gioco di Obama - giusto o sbagliato che sia - è andato in porto.

Orbene: ieri Hillary Clinton si è recata a Mosca per combinare l'affare.
In particolare, secondo l'Associated Press, il suo obiettivo era di "ottenere dalla Russia delle dichiarazioni che esprimessero sostegno alla ipotesi di nuove sanzioni ed altre penalità qualora l'Iran perseverasse nel rifiutarsi di sospendere l'arricchimento dell'uranio entro la fine dell'anno".
Per lubrificare l'accordo, ha usato la miglior vaselina di cui dispone:
"Michael McFaul, il principale consulente della Sig.ra Clinton sulla Russia, ha dichiarato al Kommersant, il più autorevole quotidiano economico russo, che Washington era pronta a diluire le sue critiche rispetto alle violazioni di diritti da parte del Cremlino.
"Abbiamo deciso che abbiamo bisogno di un "reset" in questo ambito, e di scrollarci di dosso il nostro approccio precedente" ha detto, aggiungendo che gli USA hanno deciso di non impartire più lezioni sulla democrazia alla Russia, in modo da non irritare Mosca".
Insomma: la stessa carota senza bastone già elargita alla Cina.

Com'è andata?
Giudicate voi, dalla semplice lettura del New York Times:
"Minacciare l'Iran con nuove, severe sanzioni per ottenere progressi nel negoziato sul suo piano di armamento nucleare sarebbe “controproducente”, ha dichiarato oggi il ministro degli esteri russo, raffreddando con una doccia gelata le speranze dell'amministrazione Obama che la Russia fosse stata convinta a collaborare impegnandosi nell'intensificazione delle pressioni da parte della comunità internazionale sul regime di Teheran".
Il Wall Street Journal aggiunge che
"Lavrov si è anche opposto alla possibilità di sanzioni che non passino dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU, con ciò potenzialmente ostacolando gli sforzi degli USA di trovare alleati accordandosi con un paese alla volta".

Vladimir Putin non era presente, perchè impegnato a negoziare con Pechino un super-mega accordo per la fornitura di gas e petrolio dalla Russia alla Cina.

Insomma: meno male che venerdì scorso il presidente ha vinto il Nobel per la Pace, altrimenti sarebbe veramente un ottobre di merda.

venerdì 9 ottobre 2009

MIRACOLO: PREMIO NOBEL SULLA FIDUCIA. OBAMA SANTO SUBITO!

Questa è veramente strepitosa: dopo l’applauso di incoraggiamento, è stato coniato il premio Nobel di incoraggiamento – o sulla fiducia, come preferite (meglio: sulla parola. Carina anche questa di Carlo Panella: "dopo la guerra preventiva di Bush, il Nobel preventivo di Obama"...).
Non saprei come collocarlo, se non come l'ennesimo miracolo di Sant’Obama.
La motivazione ufficiale, poi, è un capolavoro: basti dire che è incentrata sugli sforzi di Obama volti a ridurre gli arsenali nucleari (questi sforzi, devo presumere…).
Scherzi a parte (ma si fatica, oggi), è la conferma che questa presidenza si basa prevalentemente su di una colossale operazione di immagine - a volte gestita da cani, come nel caso del recente "buco" della candidatura olimpica di Chicago, a volte gestita con successo... anche se con esiti un po' surreali, come nel caso odierno, il che non è dettaglio da poco e su questo gli addetti ai lavori sembrano unanimi.
I guastafeste di TIME (testata autorevolissima e non conservatrice) non perdono tempo per sollevare il dubbio che questo spot sia talmente prematuro da risultare controproducente. E nella sede più informale di uno dei loro blog, si spingono ad ironizzare: "la sensazione è che abbia vinto il Nobel semplicemente per il fatto di non essere George W. Bush".
Analisi sostanzialmente identica quella di George Packer sul sito del New Yorker (quindi testata altrettanto autorevole ed ancora più di sinistra): "fossi in lui, ringrazierei il comitato del Nobel ma chiederei loro di tenermi da parte il premio per un paio d'anni".
Anche il mitico Lexington scuote la testa dal suo blog sul sito dell'Economist, e lo fa da par suo, citando una battuta dal film "Le relazioni pericolose": "uno non si mette ad applaudire un tenore solo perché si è schiarito la voce"!
Ma ancora più significativo è che la stroncatura più drastica si legga (anche stavolta con l'uso discreto di un blog) sul sito di Newsweek, ossia il più "obamiano" di tutti i grandi settimanali: "non importa cosa pensiate di Obama: è un fatto che quest'uomo ancora non ha fatto nulla, ma proprio nulla, per meritarsi un Nobel"; e quindi da oggi ufficialmente con questa mossa "il premio Nobel è finito, cioé è diventato un premio come tanti altri".
Chiude la panoramica il meno autorevole ma sempre più seguito "Daly Beast", dove un commentatore mette a segno la battuta del giorno: "forse adesso cominceranno ad assegnare gli Oscar non a chi ha fatto i film migliori nell'ultimo anno, ma a chi ha più probabilità di fare i film migliori l'anno prossimo".
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PS: Curiosità: è il terzo caso nella storia di Nobel per la pace ad un presidente USA in carica (i precedenti sono Teddy Roosevelt, nel 1905 per la mediazione nel conflitto russo-giapponese, e Woodrow Wilson nel 1919 per il ruolo nei trattati post-Grande Guerra. Nessun precedente "sulla fiducia", quindi: questo è un primato assoluto di Obama - sia il grande TR che WW, in effetti, erano in carica ma al secondo mandato, e di cose ne avevano combinate parecchie. Obama è in carica da otto mesi e ha fatto... ehm... "molto", secondo il comitato del Nobel, checché ne dicano i giornalisti e i buffoni di Saturday Night Live).
Ancora più curioso: i due sono al contempo i due presidenti USA più giovani della storia.
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PPS: presumo che da queste parti molti si stiano domandando, sornioni, che ne avrà pensato il Berlusca. Personalmente, invece, vorrei essere una mosca per sentire che ne pensa - davvero - il povero Sarko...

martedì 29 settembre 2009

"SARKO HA IL COMPLESSO DI OBAMA"


Spassoso pezzo sull'ultimo numero di Newsweek dedicato al rapporto difficile nella “strana coppia” Nicolas Sarkozy - Barack Obama. O meglio: alla difficoltà che Sarko avrebbe nel gestire la propria "invidia".
Secondo il settimanale americano (testata da sempre schieratissima con il 44esimo inquilino della Casa Bianca), il presidente francese sarebbe affetto da un vero e proprio “Complesso di Obama”. Primadonna com'è, non digerirebbe il fatto di essere destinato a vedersi costantemente rubare la scena dal collega amerikano, altrettanto egocentrico ma sempre avanti di una spanna, non solo in termini di importanza del paese che governa ma anche in fatto di popolarità:
“un recente sondaggio della Transatlantic Trends mostra che Obama gode di un fenomenale 88% come tasso di popolarità in Francia, mentre Sarkozy solitamente si ferma sotto al 50%”.
Inoltre, l'Eliseo si vedrebbe frequentemente scippare dalla Casa Bianca il merito di importanti iniziative. Il G20 in cui Obama ha giocato da protagonista ben oltre l'ovvio status di padrone di casa “è un consesso che proprio Sarkozy ha insistentemente voluto istituire, l'anno scorso”; e anchela linea dura contro le ambizioni nucleari dell'Iran Sarko l'adottò molto prima di Obama.

Ma più che i fatti, qui contano le emozioni. Sarko va fiero del fatto che “il suo stile consiste nell'essere sempre dappertutto nello stesso momento – il superpresidente lo chiamano i francesi; e anche in questo Obama sembra a volte seguirlo. Ma non è così”.
Un po' come il Nando Moriconi di Alberto Sordi, il presidente francese dalle sue parti è ormai accreditato come “l'Americano”, ma quando si viene al dunque si vede un po' troppo poco considerato dall'americano “quello vero”.

“Entrambi pretendono di essere in prima fila su ogni iniziativa: Obama perchè è il presidente degli Stati Uniti, e Sarkozy perché è così ambizioso”.
Due galli in un pollaio – con inevitabile contorno di servizi fotografici rifiutati, dispettucci, ripicche. “Pare che in primavera Sarkozy abbia detto a un gruppo di parlamentari con i quali stava pranzando che Obama “non ha mai gestito un ministero in vita sua””.

In tutta questa facezia (di un certo pregio anche perché evita di scadere in facili ironie sulla statura fisica dei due personaggi), il quadretto che da solo vale la lettura dell'intero pezzo è questo:

“Le personalità dei due presidenti possono entrare in collisione: Obama, sorridente ma distaccato, tratta Sarkozy come uno dei tanti suoi non-esattamente-pari in Europa, mentre Sarkozy, tutto pacche sulle spalle, ama chiamare il presidente USA “amico”, ma non si vede ricambiare il favore. Guardarli insieme sul palco, come quando sono apparsi alle commemorazioni per l'anniversario del D-Day in Normandia a giugno, è come guardare Joe Pesci recitare faccia a faccia con Denzel Washington”.

Chissà, magari certe tensioni verranno risolte grazie a certi interessi comuni che i due hanno ripetutamente dimostrato di condividere...

venerdì 25 settembre 2009

PERCHE' PROPRIO A PITTSBURGH


Dopo il G8 a L’Aquila post-terremoto, i potenti del mondo si beccano una gitarella in un altro posto sfigatissimo: il G20 sulla finanza si tiene in queste ore a Pittsburgh, in Pennsylvania al confine con l’Ohio.
Strano posto, per un evento tanto prestigioso.
Raccontava ieri un cronista di TIME:
"Quando l'addetto stampa della Casa Bianca Robert Gibbs annuniò, a maggio, che l'Amministrazione Obama aveva deciso di tenere il G20 a Pittsburgh, i giornalisti presenti esplosero in una risata. E come dargli torto?".
La “fascia” che corre tra Illinois, Indiana, Michigan, Ohio e Pennsylvania occidentale, è da molti anni soprannominata “Rust Belt”, la Cintura della Ruggine: desolazione e degrado, piccoli paesi e grandi città “fantasma”, costellati da stabilimenti industriali da tempo abbandonati.
Cleveland, la città più importante dell’Ohio, è oggi considerata la più povera degli Stati Uniti. Detroit, in Michigan, storica capitale dell’industria americana dell’auto, non sta meglio (un tempo era la quarta città USA, ora è l'undicesima. Qui un recente reportage su TIME).
Pittsburgh era fino a qualche tempo fa nelle stesse miserevoli condizioni, ma recentemente sta venendo “rilanciata” puntando sui settori più “innovativi”.
Spiega Gideon Rachman del Financial Times:
“Pittsburgh è considerata una vetrina della ripresa post-industriale. La popolazione cittadina era stata decimate dal naufragio dell’industria siderurgica. Metà della popolazione era andata a vivere altrove, man mano che i posti di lavoro evaporavano […] Ma oggi nuove industrie sono spuntate nel campo dei servizi sanitari, della robotica e dell’informatica. Il tasso di disoccupazione è “solo” il 7,7%, più basso del resto degli USA. Dovrebbero fare delle magliette per il G20, con su lo slogan “si può sopravvivere alla globalizzazione”.
Soprattutto, l’amministrazione vuole sbandierare il “nuovo potenziale” di posti come Pittsburgh generato dal matrimonio tra i business delle nuove tecnologie e quello legato all’ecologia, che si spera possa generare nuovi posti di lavoro che vadano a rimpiazzare quelli persi con la crisi della siderurgia, cioè “emigrati” con la delocalizzazione, che tanto ormai è chiaro non torneranno più.
Qui un video preparato dal Dipartimento di Stato per propagandare agli occhi del mondo questo rilancio “dalla ruggine al verde”.
(Per inciso: identiche politiche erano nel programma dello sconfitto candidato repubblicano John McCain, il quale nell’aprile dello scorso anno tenne uno dei suoi primi comizi nella cittadina di Youngstown, in Ohio, uno dei luoghi più disperati della Rust Belt, in cui propose di detassare “le nuove società ed industrie del settore tecnologico, in particolare di quello delle tecnologie ecologiche come quelle di trasformazione dell’energia solare ed eolica, che stanno cercando a fatica di crescere proprio qui, cercando nuovi mercati ed assumendo nuovi lavoratori”).

In perfetto stile obamiano (soprattutto michelleobamiano) il tutto viene confezionato nel modo più “trendy”, senza timore di sconfinare nel radical-chic. E così l’allevamento bio va a braccetto con i quadri pop. Racconta Maurizio Molinari su La Stampa di oggi:
“il gran finale studiato a tavolino nella West Wing della Casa Bianca avviene nel segno del cittadino di Pittsburgh forse più noto al mondo: il pittore Andy Warhol al quale è intitolato un museo che raccoglie numerosi dipinti che raccontando la carriera dell’artista che ritrasse Marylin Monroe in una memorabile posa. Sarà in questa cornice che le First Lady concluderanno il pranzo e il summit prima del rituale arrivederci.”
Ed è subito Manhattan, anche a Pittsburgh.

giovedì 24 settembre 2009

"NON SI IMPONE DALL'ESTERNO". E DALL'INTERNO?


Tutti i titoli dei “grandi” media nostrani dedicati all'intervento di Obama ieri all'ONU sono incentrati su questo passaggio:

“Democracy cannot be imposed on any nation from the outside. Each society must search for its own path, and no path is perfect. Each country will pursue a path rooted in the culture of its people and in its past traditions. And I admit that America has too often been selective in its promotion of democracy”.

Inevitabile che fosse quella frase a fare chiasso; ma per leggerla sensatamente, bisogna focalizzare sul fatto che essa è letteralmente incastonata fra questa:

“I pledge that America will always stand with those who stand up for their dignity and their rights -- for the student who seeks to learn; the voter who demands to be heard; the innocent who longs to be free; the oppressed who yearns to be equal”

…e quest’altra:

“There are basic principles that are universal; there are certain truths which are self-evident -- and the United States of America will never waver in our efforts to stand up for the right of people everywhere to determine their own destiny”.
Altrettanto trascurato, sui nostri giornali, il fatto che il tutto era stato introdotto da questa premessa:

“we must champion those principles which ensure that governments reflect the will of the people. These principles cannot be afterthoughts -- democracy and human rights are essential to achieving each of the goals that I've discussed today, because governments of the people and by the people are more likely to act in the broader interests of their own people, rather than narrow interests of those in power”

E da questo ammonimento:

“The people of the world want change. They will not long tolerate those who
are on the wrong side of history”.
Quest’ultima frase non suona troppo reaganiana solo perchè il soggetto sono “loro” (i cittadini del pianeta), e non “noi” (americani, occidentali, ecc.); tuttavia, il concetto " siete dalla parte sbagliata della storia” (ricicciato: gli speechwriter di Obama l’avevano già usato nel discorso di inaugurazione della sua presidenza, quale "bastone" seguito dalla "carota" , “ma vi porgeremo la nostra mano se voi siete disposti a sciogliere il pugno” – già allora Camillo lo sottolineò come “molto bushiano”), ha comunque un retrogusto vagamente reaganiano (ricorda un po' la profezia che Ronnie infilò nel suo mitico discorso al parlamento inglese nel giugno del 1982 , quello dell’ “impero del male”, in cui sentenziò il comunismo sarebbe stato “consegnato alla storia come un mucchio di ceneri”), che conferisce al discorso un tono decisamente – come dire? – “non europeo”.

Non a caso Paolo Valentino nota sul Corriere che quando si passa dall’empireo delle belle parole al concreto delle questioni aperte “Obama e George W. appaiono meno conflittuali, e la politica estera americana mostra le sue continuità di fondo”.

Uno potrebbe anche sintetizzarla così: la democrazia non può essere imposta dall’esterno, ma noi siamo dalla parte giusta della storia e se qualcuno avrà bisogno di noi per rovesciare (dall’interno?) qualcuno di quei tiranni che stanno dalla parte sbagliata (in Iran? In Birmania? In Georgia? In Tibet? A Cuba?...), non ci tireremo indietro…

Sul piano della retorica, il 44esimo presidente si conferma (come già nel famoso -? – discorso del Cairo) ambivalente, generico, molto attento a strappare applausi senza mai sbilanciarsi e senza mai vincolarsi ad un contenuto concreto.
Continua a non esistere una “dottrina Obama” (benché i conservatori incazzati del Washington Times la riassumano polemicamente : “resa, indorata con una glassa di belle parole”).
Continuiamo a non sapere che farà questa amministrazione del National Endowment for Democracies, del USAID, e di altre cosucce del genere che tanto ingrifano i dietrologi.

Le chiacchiere stanno a zero, restiamo appostati in paziente (ehm) attesa di fatti. O di decisioni, per dirla con l'elefantone.

lunedì 21 settembre 2009

SI STA COME D'AUTUNNO

Anni fa i giornalisti avevano soprannominato "full Ginsburg" l'impresa di apparire in un unico weekend in tutti i cinque principali talk show politici televisivi ( This Week sulla ABC, Fox News Sunday, Face the Nation sulla CBS, Meet the Press sulla NBC, e Late Edition sulla CNN, quest'anno sostituito da State of the Union), perchè il primo a mettere a segno quel colpaccio era stato dieci anni fa William Ginsburg, l'avvocato di Monica Lewinsky.
Lo scorso weekend, Obama è stato il primo presidente in carica ad infilare un "full Ginsburg", con l'unico dettaglio di aver sostituito la troppo ostile Fox News con il canale in ligua spagnola Univision.

E questo non è un buon sintomo.

Dopo il discorso del presidente al Congresso lo scorso 9 settembre per "rilanciare" la riforma sanitaria, anch'esso evento più mediatico che istituzionale, i sondaggi registrano progressi molto modesti, persino meno significativi di quelli ottenuti nello stesso modo e nello stesso ambito 16 anni fa da Bill Clinton - che poi fallì.
Praticamente, al netto del rumore statistico Obama pare essere riuscito solamente ad arrestare -ma non ad invertire - il trend negativo che i sondaggisti hanno rilevato per tutta l'estate.

Il che spiega la bulimia televisiva del presidente, che con questo bombardamento mediatico (in italia lo chiamerebbero così, penso...) cerca affannosamente di recuperare un po' di fiducia.

Ieri sera ha rincarato la dose passando alla storia come il primo presidente in carica ad andare a gigioneggiare al Late Show di David Letterman ("i Servizi Segreti hanno controllato anche sotto il mio parrucchino", ha scherzato l'anziano conduttore per sottolineare l'eccezionalità dell'evento. Ma scherzava fino a un certo punto: ogni tanto le telecamere qualche addetto alla security presidenziale a piantone del palco lo hanno fugacemente inquadrato).

La malinconia autunnale nel giardino della Casa Bianca è mitigata solo dal fatto che per ora l'opposizione è vistosamente sprovvista di una parvenza di leader credibile: nessun Newt Gingrich in vista (a parte... Newt Gingrich, forse).
Stanley Fish (una specie di Umberto Eco d’oltreoceano, meno famoso anche perché non scrive romanzi) ieri notava sul New York Times che la forza residua di Obama risiede nel fatto di comparire come un gigante attorniato da minuscoli nanetti, sia di fronte all'opposizione che nella sua amministrazione e nel suo partito: "come il Giulio Cesare di Shakespeare, domina il panorama politico come un colosso"... ma solo per mancaza di antagonisti. Un vantaggio che potrebbe durare a lungo o anche no.

E intanto le elezioni di medio termine del novembre 2010 sono sempre meno lontane...
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PS: Sapete che adoro fare le pulci a Christian Rocca, proprio perché gli voglio bene. Ieri ha scritto che "non era mai successo che un presidente o un politico partecipasse a cinque talk show contemporaneamente". Sbagliato: un presidente no, ma un politico sì. Anzi, quattro: Dick Cheney, fresco di nomina come candidato vice di Bush, in occasione della convention repubblicana nel luglio del 2000; John Edwards, quale promettente aspirante candidato alla Casa Bianca, nell'ottobre del 2004 (fu comunque trombato da John Kerry); Michel Chertoff, segretario alla "Homeland Security", nel settembre 2005 per via dell'uragano Katrina; e infine Hillary Clinton, quando nel settembre 2007 ufficializzò la sua candidatura alla Casa Bianca.
Nel complesso, non è che porti troppa fortuna, 'sto "full Ginsburg"...

venerdì 11 settembre 2009

WORLD TRADE CENTER

"Per tanti aspetti, i morti del WTC formavano una sorta di parlamento universale: erano rappresentati sessantadue paesi e quasi tutti i gruppi etnici e le religioni del mondo. C'era un agente di borsa ex hippie, il cappellano cattolico e gay dei Vigili del Fuoco di New York, un giocatore di hockey giapponese, un sous-chef ecuadoriano, un collezionista di bambole Barbie, un calligrafo vegetariano, un contabile palestinese... La svariata natura delle loro vite attestava la verità dell'affermazione coranica secondo la quale spegnere una singola vita significa distruggere un universo. Il bersaglio di al-Qaeda era stato l'America, ma essa aveva colpito l'intera umanità".

Lawrence Wright - "The looming Tower. Al-Qaeda and the road to 9/11" (senza dubbio uno dei libri più belli degli ultimi 10 anni).

Otto anni dopo, prosegue una ormai surreale "caccia a Bin Laden", da qualche parte in una landa desolata detta Waziristan. Cioé in Pakistan (e quindi con una traballante collaborazione dell'intelligence indigena, la cui scarsa affidabilità potrebbe forse contribuire a spiegare l'inconcludenza della caccia, come adombrato oggi in questo post dal blog di un cronista di TIME ).
Qui un colorito e piuttosto sconfortante reportage dal Times di due giorni fa (e per i pigri e i non anglofoni, qui uno spiccio riassuntino di Giudo Olimpio dal Corriere di ieri).

lunedì 7 settembre 2009

AFGHANISTAN, 2 MESI DOPO



“Nell’universo di Obama la priorità appartiene sempre alla politica, non alla forza, e lo sbarco roboante di marines con colonna sonora delle pale dei grandi elicotteri Black Hawk nella valle dell'Helmand sembra una mossa politica”.
Vittorio Zucconi, La Repubblica, 3 luglio 2009


“La guerra in Afghanistan si può vincere solo cambiando strategia, la situazione sul terreno è "grave". Parola del generale capo delle forze Nato, l'americano Stanley McChrystal […] serio problema per Barack Obama: l'Afghanistan è ormai diventata la "sua" guerra e non più un semplice lascito di George Bush da liquidare. Da quando l'attuale presidente l'ha definita "un conflitto di necessità", ha fatto propria la tesi secondo cui combattere i Taliban è indispensabile per proteggere l'America da nuovi attacchi terroristici di Al Qaeda. In questo modo Obama si è esposto in prima persona, diventando il prossimo bersaglio dei movimenti pacifisti, che già annunciano mobilitazioni nelle prossime settimane”.
Federico Rampini – sulle pagine degli esteri de La Repubblica il primo settembre 2009 (e non “solo sul suo blog” come erroneamente segnalato sabato scorso da Camillo)


Un bombardamento aereo della NATO su due autocisterne cariche di carburante ha causato tra le 80 e le 95 vittime, di cui circa la metà civili, stamattina nella – un tempo pacifica – provincia afghana del Kunduz […] A quanto pare i ribelli avevano rubato le due autocisterne che dal Tajikistan erano dirette a Kabul, ma sono rimasti impantanati nei pressi del fiume Kunduz ed hanno chiamato gli abitanti dei villaggi circostanti perché venissero a prendere il carburante. La gente è accorsa portando recipienti di fortuna per portare la benzina: i camion, quando sono stati colpiti dalle bombe gli sono esplosi addosso con una deflagrazione incendiaria da meteorite.
(sunto dal blog AFPAK di FP – 4 settembre 2009)


“Il fatto che ciò sia accaduto neache tre mesi dopo che il generale Stanley McChristal ha diramato le nuove linee guida che limitano drasticamente la possibilità di ricorrere a bombardamenti aerei, ammonendo sul fatto che il loro impiego irresponsabile “racchiude i semi della nostra autodistruzione”, sembra dimostrare quanto sarà arduo praticare la riconversione di un sistema di “potenza di fuoco” che sino ad oggi ha rappresentato l’asso nella manica di una moderna potenza militare alle prese con una elusiva insurrezione di guerriglieri”.
L’"esperto" John Burns sul “blog di guerra” del NYT – 4 settembre 2009


“Ce ne dovremmo andare dall’Afghanistan il prima possibile, portando con noi l’inferno che abbiamo scatenato. La spesa della prosecuzione di questa avventura ed il danno che la nostra permanenza laggiù arreca ai cittadini americani sono semplicemente divenuti inaccettabilmente ingenti. Il concetto di “vittoria” non ha più alcun senso né alcuna utilità. Prima affronteremo questa realtà, meglio sarà”.
Michael Laskoff, Huffington Post, 5 settembre 2009


"Il Presidente Obama ha già disposto l’invio di un rinforzo di 21mila soldati americani in Afghanistan, e presto deciderà se inviarne altre centinaia. Si tratterebbe di una decisione fatale per la sua presidenza, ed un gruppo di ex funzionari dei servizi segreti e di altri esperti sta ora a malincuore uscendo allo scoperto per ammonirlo pubblicamente rispetto al fatto che si tratterebbe di un errore di proporzioni epocali. La preoccupazione espressa da costoro – dannatamente fondata, a mio avviso – è che l’invio di altre truppe proprio nelle aree di etnia Pashtun dell’Afghanista meridionale non farebbe che accendere nella popolazione locale una spinta ad appoggiare i talebani nella resistenza contro gli invasori infedeli – ritengono, insomma, che si assisterebbe a una riedizione di ciò che avvenne negli anni Ottanta, solo che stavolta ci sarebbero gli Stati Uniti al posto dei sovietici".
Nicholas Kristof, NYT, 5 settembre 2009

"Non stiamo solo incrementando il livello delle truppe in Afghanistan. Stiamo trasformando la nostra missione, dal babysitteraggio all'adozione. Ci stiamo spostando da quella che era una missione limitata, incentrata sul fare da babysitter all'Afghanistan (prescindendo dalla miseria del suo governo) per impedire il ritorno di Al Qaeda, ad un vero e proprio progetto di "state-building [...] E questo è un impegno molto più gravoso di quello che avevamo originariamente assunto. Prima di adottare il bimbo - l'Afghanistan - dobbiamo mettere in piedi una nuova discussione nazionale su questo progetto: quanto ci costerà, quanto tempo potrebbe volerci, con quali interessi americani ciò collima, e, soprattutto, chi sarà a sovrintendere questo disegno politico? [...] Io oggi percepisco una diffusa e crescente perplessità riguardo a questa questione da parte dell'opinione pubblica americana; e procedere all'adozione di un bimbo rispetto al quale si nutrono delle perplessità è una ricetta per combinare un disastro".

"Ho trovato significativo il fatto che durante lo scorso weekend, entrambi i due principali commentatori di politica estera del New York Times’s - Tom Friedman e Nicholas Kristoff - si siano prodotti in editoriali scettici sulla guerra in Afghanistan . [...] Non sono solo gli editorialisti ad avere molteplici ripensamenti. Lo stesso sta accadendo ai vertici dei principali think tank americani di politica estera. [...] Si tratta non solo di persone che incidono sulla formazione dell'opinione delle elite, ma anche di naturali simpatizzanti di Obama. Se persino loro cominciano ad opporsi a questa guerra, avrà una bella gatta da pelare". Gideon Rachman, "solo sul suo blog", oggi 7 settembre 2009

"Fra un anno, staremo ancora disquisendo se l’Afghanistan si stia trasformando nel Vietnam di Obama oppure no. Se il presidente sarà fortunato, la questione sarà ancora aperta". Doyle McManus, Los Angeles Times, 6 settembre 2009

mercoledì 2 settembre 2009

OBAMARKETING: "YES WE CAN" NON VENDE PIU'?

Non mi riferisco al dato demoscopico americano, ossia ai sondaggi dell'ultima settimana che segnalano un calo di popolarità tra gli elettori pressoché senza precedenti, per rapidità dopo l'elezione.

Mi riferisco, invece, al dato commerciale italiano, ossia all'esaurimento della "richiesta" di monografie dedicate ad Obama e/o alla "sua" america, rilevato oggi da Christian Rocca.

A quanto pare, il corrispondente de Il Foglio ha parlato con qualche collega che ha recentemente tastato il terreno per vedere di piazzare un suo lavoro su Obama, e che si è sentito opporre una serie di dinieghi che un po' mi ricordano quelli cui - si parva licet... - incappò nel suo piccolo il sottoscritto un anno fa quando osò proporre una monografia su John McCain. Anche la motivazione - a mio avviso non sincera, come dirò - è la stessa: trattasi di "storia già raccontata esaustivamente ogni giorno dai quotidiani, dalle riviste e dalle televisioni".

Balle. Quotidiani, riviste e televisioni si comportavano alla stessa maniera anche l'anno scorso, quando pareva che negli USA si disputasse un'elezione con un candidato unico come nell'Iraq di Saddam. Eppure, ciò non trattenne gli editori italiani dalla foga bulimica con la quale si strafogarono di testi obamamaniaci.

Meno di un anno fa (13 ottobre 2008), scribacchiando su "ITALIAN BLOGS FOR MCCAIN", mi divertii a descrivere il fenomeno della epidemia di obamamania editoriale italica. Non credo fosse mai accaduto in precedenza che in Italia venissero pubblicati la bellezza di 10 (dieci) libri di e/o su un candidato alla Casa Bianca prima delle elezioni americane. Eppure, stavolta è successo.

L'inventario era questo:

1) "Barack Obama. Si può fare" , di B. Obama e L. Rociack (Casini, 2008)
2) "Yes, we can. Il nuovo sogno americano", di B. Obama (Donzelli, 2008)
3) "L'audacia della speranza. Il sogno americano per un mondo nuovo" di B. Obama (prefazione di Uòlter "Si può fare" Veltroni - Rizzoli, 2007)
4) "Barack Obama. La rockstar della politica americana", di G. Moltedo e M. Palumbo (UTET, 2007 - ora ripubblicato come "Barack Obama. 44° presidente USA")
5) "I sogni di mio padre. Un racconto sulla razza e l'eredità", di B. Obama (Nutrimenti, 2007)
6) il misconosciuto ”Perché Obama. La sfida dell'altra America”, di tal Stefano Romita.
7) la monografia di Giuliano da Empoli uscita per la Marsilio, a mio avviso ancora oggi il più interessante prodotto editoriale italiano su Obama (anche se di fatto si tratta di un assemblaggio di articoli usciti su Il Riformista);
8) la traduzione di un’agiografia made in Chicago per i tipi della Cairo Editore (la stessa che pubblicò il mitico "No Sex in the City" dell'altrettanto mitico Mauro Suttora);
9) una raccolta di "discorsi per la presidenza" di Obama, edita dalla Donzelli dopo aver già pubblicato mesi fa una analoga raccolta di discorsi meno recenti (a quando l’istituzione di un’apposita collana?);
10) infine la Rizzoli, dopo aver ripubblicato in versione economica l’autobiografia di Obama con prefazione di Veltroni, uscì prima delle elezioni con un’edizione del discorso di Obama “Sulla razza” addirittura con testo a fronte!

Post-elezioni, la lista si è allungata del 100%:

11) "Barack Obama ha votato per te. Tutto quello che avresti voluto sapere sul presidente degli Stati Uniti e che lui non ha mai avuto il coraggio di dirti", di Dietnam & Mist (TEA)
12) "Caro Obama, ti è già venuta qualche buona idea? Le lettere dei bambini al presidente Obama" (sic! giuro che è vera - e l'editore è Mondadori)
13) "Un nuovo inizio. Il discorso che segna la svolta tra Stati Uniti e Medio Oriente" , di B,. Obama (Castelvecchi - con testo a fronte)
14) "L' era della responsabilità", di B. Obama (Cooper)
15) "La mia fede. Come riconciliare i credenti con una politica democratica" , di B. Obama (Marsilio)
16) "Obama. Yes we can", di A. Painter (Baldini Castoldi Dalai - premio per il titolo più fantasioso. Quello originale, per la cronaca, era "Obama: The Movement for Change")
17) "Obama leadership. Cosa possiamo imparare come manager e come persone" , di F. Mioni e M. Rotondi (Franco Angeli)
18) "Obama S.p.A. I segreti del presidente USA per vincere nel business" di B. Libert e R. Faulk (Etas)
19) "Barack Obama. Come e perché l'America ha scelto un nero alla Casa Bianca" , di L. Clerico (Dedalo)

Quasi venti titoli in poco più di un anno, signore e signori. Su John Kennedy, oggi come oggi ne trovate circa la metà. Su Reagan, ne trovate un decimo (equamente ripartiti: uno a favore, l'altro contro).

Quindi, altro che "quotidiani, riviste e televisioni": sono proprio gli editori di libri ad essersi ingolfati di una enormità di pubblicazioni su Obama, al punto di dover anteporre, oggi, l'esigenza di svuotare i magazzini a quella di pubblicare testi aggiornati all'attualità.

Stando alla segnalazione di Camillo, in questo ingorgo riusciranno a farsi strada solo tre titoli "aggiornati": quello di Pistolini (di gran lunga il miglior agiografo italiano del 44esimo presidente), quello di Calabresi (della cui inattendibilità in materia mi accadde di discettare quando era ancora aspirante direttore di Rep. e non ancora neodirettore del La Stampa), e il "Renegade" di Wollfe - cui potrebbe aggiungersi a breve un nuovo volume dell'ottimo Maurizio Molinari.

Morale della favola: il "raffreddamento" nei confronti di Obama da parte dell'editoria italiana appare del tutto analogo ed omogeneo rispetto a quello da parte degli elettori americani: reflusso, dovuto al fisiologico sgonfiamento di una "bolla" formatasi, non senza una certa isteria, l'anno scorso.

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